mercoledì 17 marzo 2010

Formichine, la forza nascosta


Sono in compagnia di una persona originalissima, Giuseppe Benedetto Cottolengo. Sto seguendo una tesi sulla sua opera, la “Piccola casa”. Mi sono tornate in mente le formichine…
Me le trovai davanti la mattina presto, nella penombra della grande chiesa del Cottolengo a Torino. Un centinaio. Tutte nere. Tutte rigorosamente uguali come lo sono le formichine nere. Non si distinguevano le une dalle altre come avviene per tutte le formichine nere.
Avevo trascorso quattro anni dei miei studi al Cottolengo di Torino, ma le suore del Cottolengo non avevano attirato la mia attenzione, come abitualmente non l’attirano le mille formichine nere che si agitano laboriose sui terreni.
Adesso mi sembrava di vederle per la prima volta. Pregavano all’unisono, si alzavano all’unisono, si segnavano all’unisono, s’inginocchiavano all’unisono, lasciarono la chiesa all’unisono. Ma prima che se ne andassero m’ero preso il tempo per guardarmele ad una ad una, per quanto me lo consentisse la luce scarsa, nel tentativo di cogliere qualche eccentricità, qualche differenziazione, o almeno qualche caratterizzazione che le distinguesse l’una dall’altra. Forse era la lontananza del mio punto d’osservazione, ma non notavo alcuna diversità. Formichine.
Vent’anni, quaranta, cinquanta e più e più. Sempre lì, accanto agli stessi ammalati, ai corpi rattrappiti, alle menti lontane, come madri che assistono con amore i figli. Sempre lì, nei lunghi corridoi con le tante stanze, luoghi non più anonimi perché da loro resi casa, persone non più sole perché da loro fatte famiglia.
Vent’anni, quaranta, cinquanta e più e più. Gli stessi gesti ripetuti da quando erano giovani. Lavare mani rattrappite, accarezzare un volto sbilenco, imboccare chi non ha più braccia, giocare col bambino deforme, consolare il rantolo del vecchio, pettinare i capelli su un volto spento…
Chi si ricorda più di loro? Chi le conosce? Nascoste nel villaggio del dolore e dell’amore, con i brevi tragitti dalla chiesa all’ospizio, dalla cella all’orto… Ignote ai più. E se lo scoraggiamento avesse il sopravvento? E se facesse capolino la vanità e la voglia d’apparire? E se pretendessero finalmente d’essere loro oggetto d’attenzione e d’amore? E invece rimangono lì, fedeli, dimentiche di sé, dedite a quegli infelici che, grazie ad esse, non sono più tali.
Formichine? Sì, al mio sguardo superficiale. Ma all’occhio di Dio ognuna è diversa, singolare, unica. Lui le conosce ad una ad una, irripetibili capolavori dall’inestimabile valore.

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