mercoledì 1 dicembre 2010

Quelle barriere da abbattere


Nei film americani si vedono spesso quelle interminate strade dritte che attraversano zone desertiche che non si sa dove portano, tanto è vasto il continente. Non avrei mai immaginato che un giorno anch’io le avrei percorse con una di queste grandi auto con le marce automatiche, e non avrei mai immaginato che questo monotono paesaggio fosse così affascinante: le ampie distese di terreni incolti e di pascoli, le boscaglie di acacie e di querce, gli accenni di colline verdi, i cactus, i cancelli in ferro battuto che introducono nelle tenute dei ranch…
Una tappa del mio viaggio nel Texas mi porta a Nixon, cittadina sperduta nella campagna. Fondata centro anni fa da un omonimo membro del parlamento, conta oggi poco più di 2000 abitanti, per la maggior parte immigrati dal Messico; forse tanti sono illegali. Una sola industria – confezione di carne di pollo – che impiega un centinaio di persone. Poi allevamento di bestiame all’aperto, nei ranch disseminati su distese di terre che si allontanano a perdita d’occhio. Grande, tutto è grande in Texas. La vita, in questa cittadina sperduta, sembra piuttosto magra, a giudicare dal tenore delle costruzioni di legno e dai mercatini domestici sui prati davanti casa. Eppure la gente ha la fortuna di vivere immersa nel verde, lungo strada larghissime tra i campi, nel più assoluto silenzio… Un’America non molto nota, che pure ha un suo fascino.
Così piccolo il paese di Nixon, eppure ha due cimiteri! C’è il cimitero dei primi arrivati, dall’Inghilterra, dall’Irlanda e da altri Paesi europei, e il cimitero latino-americano, per quelli arrivati poco più tardi dal Messico e dal Centro America. Due mondi, due culture che non potevano convivere neppure da morti. Col passare degli anni le due comunità lentamente si sono amalgamate, pur conservando il bilinguismo.
Ma quante divisioni sono ancora presenti in questo nostro mondo. Penso al muro eretto nel 2006 fa qui in Texas e negli altri stati del Sud, ai confini con il Messico; una barriera di acciaio dell’altezza di tre metri, disseminata di telecamere, sensori di ultima generazione che attraversa i tratti più critici di un confine che si estende per ben 3.140 km.
Il muro è stato eretto per proteggersi dalla massiccia immigrazione dei clandestini e dal commercio di droga e armi. Ma a monte vi è la paura di un’America che si vede invasa. Da una parte il Paese è ben consapevole che non può più andare avanti senza i 12 milioni di ispani, la metà dei quali è comunque presente in forma illegale. Manovalanza a basso costo, che ormai ha superato il numero degli afro-americani, oggi sono loro quelli che costruiscono le case degli americani, cucinano i loro pasti, puliscono i loro appartamenti, svolgono i lavori più umili nelle loro fabbriche. Dall’altra questa presenza inquieta, perché i latino-americani non si integrano nel modello linguistico e culturale di tipo anglosassone, come hanno fatto per 200 anni tutti quelli che sono venuti come immigranti negli USA. Introducono il bilinguismo e altri stili di vita.
L’aver eretto il muro per prevenire l’immigrazione – e la barriere continua ad essere portata avanti, a cominciare dal pattugliamento con gli aerei radar – è una battaglia già persa, come fu con costruzione della Grande Muraglia, del “Vallo di Adriano”, della Linea Maginot, del “muro di Berlino”; come lo sarà presto con il muro che di Israele che divide Ebrei e Palestinesi. Le migrazioni si possono contenere per un po’ di tempo, ma non si possono frenano, come insegna la storia.
Più che erigere muri di divisione dovremmo imparare ad aprire nei tanti muri esistenti – architettonici, culturali, psicologici – porte di dialogo, unica via per regolare flussi di popoli e favorire rapporti di cultura.

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