giovedì 25 agosto 2011

Viaggio in Argentina - La stoltezza della Croce


Se la notte è silenziosa, con le stelle che brillano mute, il giorno è un canto di mille uccelli. La natura sembra partecipare alla festa che c’è tra noi in questo simposio ebraico-cristiano. Si avverte un crescendo rispetto agli altri tre precedenti incontri: una più profonda conoscenza, più fiducia, un amore più sincero. Sembra un sogno. Dove sono i “perfidi giudei” di antica memoria?
Nei momenti liberi (ma il programma è così intenso!) visitiamo la Mariapoli con le sue aziendine, le case, i centri di incontro… È un incanto incontrare i giovani che vi lavorano, così pieni di entusiasmo; e gli adulti che da tanti anni vivono qui con fedeltà e fede. Veramente è una nuova umanità, una profezia della città nuova.
Oggi, accanto alle abituali conferenze, gli incontri di dialogo per differenti ambiti: il mondo della giustizia, della comunicazione, dell’educazione…

Dovrei parlare del Crocifisso icona dell’identità. Parlare del Crocifisso agli ebrei? Come? Proprio oggi, festa di san Bartolomeo, la liturgia ci fa leggere le parole di Paolo: “Parlo di Cristo, Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, follia per i pagani…”. Credo che anche oggi la croce continui ad essere scandalo e follia. Per parlare di Gesù Crocifisso dovrei essere Lui. Mi piacerebbe condividere con semplicità la convinzione che Gesù acquista la sua identità quando la perde, che diventa Signore della vita attraverso la morte.

Nel suo grido - “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” - Gesù mostra di essere giunto allo svuotamento estremo di sé, a quella kenosis di cui parlare Paolo: “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 6-7).
Per compiere la riconciliazione tra gli uomini e con Dio si sente estromesso dal suo popolo (è crocifisso fuori della città santa) e dal Padre suo (dal quale si vede abbandonato). Gesù perde, se così si può dire, la sua identità di Figlio di Dio. Come ebreo è maledetto dalla legge perché pende dalla croce, come figlio di Dio è abbandonato dal Padre fino ad apparire soltanto uomo. Avrebbe potuto rifiutare questa via e affermare se stesso, in tutta l’identità di figlio di Dio, rispondendo alla sfida: “Se sei figlio di Dio, scendi dalla croce”.
Ma è proprio qui, nell’accettazione da parte di Gesù di farsi maledizione con i maledetti, peccato con i peccatori, anatema con chi è anatema, senza Dio con i senza Dio, che egli manifesta il paradosso dell’amore che rende benedetti e maledetti, innocenti i peccatori, accoglie in casa gli esclusi, rende Dio agli atei.
A sera continuano i momenti ricreativi e artistici
Perché “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”, la sua identità religiosa, potremmo dire, “Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome”, gli reso la propria identità.
Il centurione romano, che lo aveva crocifisso e aveva inferto con la lancia il colpo di grazia, riconosce la sua identità proprio in questa apparente perdita di identità: “Questi era veramente il figlio di Dio” (Mc 15, 39).
Qui sta l’essenza dell’amore che in quanto dono totale non è, non esiste per sé, e perciò è: è amore! Gesù proprio nel momento in cui è espropriato da sé dall’amore e perde la propria identità per amore, allora è pienamente se stesso e manifesta la sua identità più profonda – il suo essere amore.
Si intravedono le applicazioni nel dialogo interreligioso.
L’affermazione forte della propria identità può generare lo scontro tra le differenti identità. Soltanto il reciproco “non essere” davanti all’altro, come espressione dell’amore, fa “essere” l’altro e fa ritrovare pienamente sé stessi nella più profonda identità religiosa: l’essere amore.

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