lunedì 6 febbraio 2012

Guinea Bissau: La missione come l’abbiamo sempre pensata


4 febbraio 2012
Terzo giorno, terza e ultima tappa del viaggio che mi conduce finalmente a N’Dame, alla periferia di Bissau, metà finale.
Prima di ripartire dedico la mattinata ad una conoscenza rapida della missione di Farim. Sui 5000 abitanti della città, cinque o sei cento sono cristiani, altri 300 sono sparsi in una ventina di villaggi affidati alla missione.
La visita inizia dalla chiesa dove un bel gruppo di giovani sta facendo le pulizie del sabato. Ce n’è bisogno perché la polvere, qui come in Senegal, copre ogni superficie, si insinua nei cassetti, penetra negli armadi, regna sovrana tra libri carte e computer, tutto avvolge…
La falegnameria della missione, bruciata due anni fa, è ora in ricostruzione; per il momento gli operai lavorano all’aperto, sotto l’ombra dei manghi. Sono già arrivate le macchine nuove dall’Italia; nuove per qui, ma là dismesse perché di vecchia data, senza congegni elettronici e fuori norme di sicurezza.
Passiamo al centro nutrizionale e di puericultura, la Casa Emanuele, finanziato dai genitori del nostro amico di Frascati morto in un incidente stradale. Mamme e bambine sono in fila in attesa della visita. Oggi ci sono anche gli uomini e i ragazzi con i carretti trainati dagli asini; loro attendono i viveri mensili da portare in 12 scuole della missione in altrettanti villaggi.
Poi l’asilo e, nuova nuova, la scuola elementare con una grande biblioteca aperta a tutta la cittadina. Questa è opera dei benefattori di Prato, in particolare della Misericordia.
La scuola oggi è chiusa perché sabato, ma per ogni dove ci sono gruppi di bambini che fanno in catechismo…
Ma cosa non hanno fatto e non fanno i nostri missionari? Siamo proprio nella missione classica, quella dove si deve fare e si fa tutto! C’è anche una stanza con le macchine da cucine per insegnare alla donne un po’ di sartoria, così come si insegna a fare il sale con metodi e attrezzature più moderne rispetto al metodo tradizionale...
Carlo con il capo villaggio
Tutto questo grazie in modo particolare all’aiuto di un numero indefinito di volontari - muratori, ingegneri, tecnici, semplici operai - che vengono dall’Italia durante le ferie a dare il loro contributo, come quello di Milano che è qui in questi giorni come factotum: segue i lavori della falegnameria e sta studiando come riparare il tetto della chiesa.

Carlo mi porta a visitare uno dei suoi villaggi. Viaggiamo per piste impossibili di terra rossa, fasciati dall’erba e dalle canne che accarezzano l’auto, fino al villaggio di Dutado, nome che significa “il posto dei manghi”. Dopo aver fatto tutta questa strada con un’auto a quattro trazioni, ci domandiamo come fanno quando una donna ha difficoltà a partorire, o quando qualcuno è ammalato grave… (In effetti secondo le stime dell’Unicef il 40% di donne qui muore di parto). Siamo arrivati alla fine del mondo.
La macchina non è ancora nel villaggio e già i bambini stanno correndo per precederci nel posto dove ci fermeremo. Scendiamo e siamo avvolti da un nuvolo di manine terrose che vogliono essere strette in segno di saluto. Questa gente povera è arricchita non solo dalla bellezza della natura, ma anche dalla ricchezza di figli: un popolo giovanissimo!
Il villaggio è interamente musulmano, ma anche qui la missione, questa volta con l’aiuto dei comuni dei Castelli Romani, ha costruito scuola, ambulatorio, pozzo a pompa…
Tutto il villaggio è in festa. Mi avventuro tra le capanne accolto con gioia da tutti e tutti vogliono salutare, farsi fotografare, scambiare una parola.
Le donne sono in lavoro perpetuo: tirano su l’acqua dal pozzo, ripartono con grandi recipienti di plastica sulla testa e si perdono verso le capanne lontane; pestano il miglio, cucinano, lavano, zappano, accudiscono casa e bambini, portano pesi. Gli uomini hanno il compito di stare in crocchio a parlare tra loro dei massimi sistemi, ma lavoreranno sodo nei campi durante la stagione.
Ho visitato soltanto uno dei tanti villaggi della missione. Altri sono ancora più remoti e isolati, rimasti a tempi lontani…

Nel pomeriggio attraversiamo il fiume con la chiatta che si muove soltanto le rare volte che deve transitare un’auto o un camion. Per avviare il motore tolgono la batteria alla nostra auto e la montano sulla  barca, che naturalmente ne è priva, come è priva degli argani per tirare su le paratie e di mille altre cose ormai arrugginite dal tempo in cui sono partiti i portoghesi. La gente abitualmente attraversa con le lunghe piroghe scavate nei tronchi di grandi alberi.
Dall’altra parte del fiume la strada è asfaltata, ma in alcuni tratti l’asfalto è sparito e si viaggia sulla bella terra rossa. Chissà se senza infrastrutture – strade, elettricità, telefono… – questa nazione ce la farà ad alzare il tenore di vita…
Siamo finalmente a Bissau che sfioriamo appena per raggiungere N’Dame, in periferia. Sta per cominciare una nuova avventura.

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