martedì 31 luglio 2012

Apa Pafnunzio: la paura di morire


Apa Pafnunzio ogni sera invocava il ritorno del Signore, come aveva insegnato a pregare il Veggente di Patmos: “Matanathà, vieni Signore Gesù”. Chiedeva con tutto il cuore il suo avvento ultimo, quando avrebbe inaugurato i cieli nuovi e la terra nuova nei quali abita la giustizia e la pace. Pregava con ardore, ma nello stesso tempo aveva timore di quel ritorno, o più semplicemente aveva paura di morire. Sapeva che la morte era l’incontro con l’Amato, eppure aveva paura ugualmente. Come sarebbe stato quel salto nel buio? Prima ancora: avrebbe sostenuto la dura agonia, l’agone, il combattimento finale tra vita e morte?
Un mattina, ormai verso l’ora sesta, un fratello apparve sulla porta della cella. Vedendolo stanco del viaggio Pafnunzio lo invitò a entrare, a sedersi; attinse acqua fresca dall’orcio e gliela porse, quindi condivise con lui il magro pasto. Dopo che insieme si furono rifocillati in silenzio, lo straniero prese la parola. Veniva dal lontano monastero delle Celle e portava la triste notizia che apa Giovanni aveva reso la sua bella anima a Dio.
Benché apa Giovanni fosse più anziano di appena pochi anni, apa Pafnunzio lo aveva scelto come maestro per essere iniziato nel cammino monastico. Le loro anime e i loro cuori si erano fusi in uno al punto da diventare fratelli. Il deserto li aveva divisi per anni, ma pure senza parlarsi e senza vedersi, continuavano ad essere un cuore solo e un’anima sola.
A sera, dopo che lo straniero ebbe ripreso il suo viaggio, apa Pafnunzio accese davanti all’icona della Madre di Dio due candeline, una per sé e una per apa Giovanni. Ora che aveva saputo della morte del padre-fratello, non aveva più paura di morire, era sparito ogni timore e pregò con nuova pace: “Maranathà, vieni Signore Gesù”. (I detti dei Padri del deserto di Scite, 41)



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