domenica 31 marzo 2013

Pasqua ecumenica ad Aix

Tre dei nuovi battezzati
La notte di Pasqua nella cattedrale di Aix, un’esperienza nuova. Nella piazza del palazzo arcivescovile (che non è più tale, ma museo) il fuoco nuovo divampa con forza creando quel clima di festa che fa tornare tutti bambini. Candele accese, la processione che si dirige alla cattedrale, dietro il cero pasquale segno del Cristo che si pone alla testo del suo popolo, sembra interminabile. I canti e l’intera liturgia sono particolarmente coinvolgenti, semplici e solenni insieme. Il momento più bello si svolge nel grande battistero ottagonale del XII secolo: il battesimo di cinque giovani tra i venti e i trent’anni, due ragazzi e due ragazze, che ricevono anche la cresima e la prima comunione. Rivestiti di un ampio mantello bianco spiccano nell’assemblea come dono nuovo offerto dal Risorto alla sua Chiesa. Non trattengono la loro gioia e ci contagiano tutti.
Oggi, nella domenica di Pasqua, dopo la messa, sulla piazza della cattedrale, l’annuncio ecumenico della risurrezione dato dal vescovo e dai pastori protestanti e anglicani. Un gesto che si ripete da anni, in controcorrente con la sfiducia che serpeggia riguardo al cammino verso l’unità.
Quell’unità che apa Pafnunzio aveva ormai capito essere il centro della preghiera sacerdotale di Gesù, come vedremo nei prossimi giorni.

sabato 30 marzo 2013

Pasqua a Marsiglia: Santificati dal Santo

Era ormai arrivata la veglia di Pasqua e apa Pafnunzio non aveva ancora terminato di ripetere la preghiera che Gesù aveva rivolto al Padre al termine dell’ultima cena. Si era proposto di farne oggetto di vita e di contemplazione lungo tutta la Quaresima, ma quelle parole erano di una tale profondità che per entrarvi non sarebbe bastato l’intero anno liturgico, neppure la vita intera. Adesso non procedeva più neppure in maniera lineare, ma lasciava che le parole gli fiorissero nel cuore spontaneamente, emergendo di qua e di là dalla complessa e insieme semplice architettura.
“Padre santo… per loro io santifico me stesso”. Ormai gli era chiaro, Gesù aveva fatto tutto “per loro”, per noi, per apa Pafnunzio: il pastore dà la vita “per le sue pecore”; Gesù muore “per il popolo”; il pane che egli dà è la sua carne “per la vita del mondo”… Santificare se stesso era un altro modo per dire che egli si stava donando totalmente a noi nella sua passione e morte. Santificarsi per Gesù voleva dire essere talmente una cosa sola con il Padre – il Padre “santo” – da diventare l’espressione del suo amore, la sua volontà fatta vita: dare la vita per il mondo; per questo il Padre l’aveva mandato.
“Padre santo… santificali nella verità”. Gesù pregava perché anche noi fossimo come lui: presi e compresi interamente da Dio, che si comunica a noi “nella verità”, nel Figlio suo, che è la sua Parola, la Verità. Veniamo coinvolti nella santità di Gesù, introdotti da lui nell’amore del Padre, così da vivere da figli di Dio, entrare nella loro stessa unità, partecipare alla loro vita divina, disponibili anche noi a compiere la sua volontà del Padre: dare la vita gli uni per gli altri, dare la vita per il mondo,.
Adesso apa Pafnunzio comprendeva perché tra le due santificazioni (“Santificali nella verità… per loro io santifico me stesso, perché siano anch'essi santificati nella verità”), Gesù parlava del mandato conferito ai suoi discepoli: “Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo”. Gesù dona la sua santità, ossia la sua unione al Padre, tale da diventare la volontà del Padre, e insieme dona la sua missione, espressione di quella santità.
Era ormai svelato anche il mistero che apa Pafnunzio stava celebrando in quei giorni della Pasqua: la morte di Gesù era la sua santificazione, il suo dare la vita, l’adempimento così perfetto della missione affidatagli dal Padre, da essere una cosa sola con lui: il Risorto, pienezza di vita. Apa Pafnunzio accolse, in Gesù, il dono del Padre, la santificazione che gli veniva offerta, e si sentì nella Verità, in Gesù, e con Gesù nel Padre: risorto, nella pienezza della vita!

Questa mattina sono stato da un “risorto”, da un santificato: sulla tomba di sant’Eugenio de Mazenod, nella cattedrale di Marsiglia finalmente aperta.

venerdì 29 marzo 2013

Venerdì Santo 1807 – Venerdì Santo 2013

Il Crocifisso della chiesa della Missione ad Aix
Venerdì santo 1807. La liturgia della croce quel giorno non fu soltanto una celebrazione suggestiva e commovente. Il mistero che in essa si celebra fu per sant’Eugenio di un’inaspettata attualità. Lentamente il legno della croce veniva scoperto dal velo che lo aveva tenuto nascosto per due settimane. Come un sole luminoso brilla il segno della salvezza, dell’amore sconfinato di Gesù Crocifisso morto perché dare a noi la vita. Eugenio, venticinquenne, ne rimase folgorato:
«Posso dimenticare le lacrime amare che la vista della Croce fece scendere dai miei occhi un Venerdì santo? Partivano dal cuore, niente poteva fermarle; erano troppo abbondanti perché mi fosse possibile nasconderle a quelli che come me assistevano a quella cerimonia toccante… Mai la mia anima fu così appagata, mai provò tanta gioia. Infatti, in mezzo a quel torrente di lacrime, malgrado il dolore, o piuttosto, in mezzo al dolore, l’anima si slanciò verso il suo fine ultimo, Dio, suo unico bene, di cui sentiva vivamente la perdita. Perché dire di più! Potrei mai esprimere ciò che provai? Il solo ricordo mi riempie di una dolce pienezza».
Quell’incontro segnò il momento culminante della conversione. Sentì lo sguardo di Gesù posarsi su di lui. L’amore col quale Dio da sempre l’aveva amato gli si manifestava qui e ora.
I suoi sogni di gloria e di prestigio, la carriera, il palazzo di famiglia, tutto d’improvviso perse valore. Rimaneva solo Cristo, confitto per sempre nel centro della vita, unica ragione, unico amore, fonte della vita cristiana, dell’offerta sacerdotale, della missione apostolica. Gesù Salvatore, nel suo mistero pasquale, diventò il motivo dominante di tutta la sua vita: amarlo e farlo amare.



La via Crucis passa davanti
alla chiesa della Missione
La via Crucis passa per le vie di Aix
Venerdì santo 2013. Qui ad Aix, ho la grazia di rivivere quel momento di luce nel luogo stesso e nello stesso momento in cui lo sperimentò sant’Eugenio.
La via crucis di questa mattina per le vie della città non mi è sembrata diversa da quella che doveva essere stata la via crucis di Gesù duemila anni fa. Come allora la croce, seguita da un piccolo gruppo di fedeli, è passata per le strade tra indifferenza, curiosità, qualche segno di devozione.
Questa mattina, come duemila anni fa passava Gesù, colui che ha attraversato la nostra storia per farsi carico dei peccati del mondo, crocifiggerli sul legno della croce, bruciarli con la sua morte e risurrezione.
Passava come passò nel 1807, quando il suo passaggio non fu vano, quando l’amore fu accolto e condiviso. Poter dire, con sant’Eugenio:
“Mio Dio… tu, tu solo ormai sarai l’unico oggetto a cui tenderà ogni mio affetto, ogni mia azione. Piacere a te, agire per la tua gloria sarà la mia occupazione quotidiana, l’occupazione di tutti gli istanti della mia vita. Io voglio vivere solo per te, voglio amare te solo e amare tutto il resto in te e per te”.

giovedì 28 marzo 2013

I due cenacoli

Questa sera tutti i cristiani tornano a Gerusalemme, sul monte Sion, e salgono al piano superiore della casa di Maria, la mamma di Marco Giovanni.
Sono andato quattro volte al cenacolo, ma tra il vociare e il via vai di turisti e pellegrini non è facile raccogliersi, eppure basta andare nella stanza accanto, celebrare l’Eucaristia e si avverte ancora il profumo del pane spezzato, del sangue versato: un Dio che si dona.
Questa sera torniamo al cenacolo per partecipare all’ultima cena di Gesù, per farci lavare i piedi, segno del suo dare la vita per noi, per accogliere il comandamento nuovo dell’amore reciproco, per ricevere l’Eucaristia, per ripetere con Gesù la preghiera al Padre perché tutti siano uno: nasce la Chiesa.

Questa sera tutti gli Oblati tornano ad Aix-en-Provence, entrano nel coro della chiesa della missione, per rinnovare la loro scelta donazione a Dio. Quest’anno sono qui, con i nostri studenti, per rivivere quel momento solenne.
Il giovedì santo del 1816, il primo che vivevano assieme tra di loro, sant’Eugenio e il suo primo compagno vi passarono la notte in preghiera, “assaporando una profonda gioia – come scrive il fondatore – alla presenza di nostro Signore, ai piedi del magnifico trono in cui l’avevamo deposto… Pregammo questo divino Maestro, se era sua volontà, di benedire la nostra opera, di condurre i nostri compagni presenti e quelli che in avvenire si sarebbero uniti a noi, a comprendere il valore di questa oblazione di sé stessi, fatta a Dio, quando lo si volesse servire totalmente e consacrare la propria vita alla diffusione del suo santo Vangelo e alla conversione delle anime. I nostri desideri furono esauditi».
Il piccolo gruppo di preti diocesani, riunitisi da poco meno di tre mesi, stava diventando una famiglia religiosa: nascevano gli Oblati di Maria Immacolata.

mercoledì 27 marzo 2013

Il “mondo” di apa Pafnunzio

Marsiglia: Saint Victor


Ben diciotto volte in quella preghiera tornava la parola “mondo”.
Perché mai, si domandava apa Pafnunzio, Gesù continuava a far presente al Padre che, mentre lui lasciava ormai il mondo, i suoi discepoli sarebbero rimasti nel mondo? Tornava a ribadire lo stesso concetto senza stancarsi: essi sono nel mondo, ma non sono del mondo; devono rimanere nel mondo, anzi li mando nel mondo.
Gesù stava semplicemente dicendo la sua esperienza: anche lui non era del mondo, era del cielo, eppure era stato mandato dal mondo perché il mondo credesse e fosse salvato.
Adesso pregava il Padre perché i suoi discepoli fossero davvero tali e vivessero come aveva vissuto lui: li aveva resi celesti, ma ora li mandava nel mondo per testimoniare di lui e per salvarlo.
 “Affida a noi la sua stessa missione”, si ripeteva apa Pfnunzio contento di poter essere come Gesù e condividere la sua stessa esperienza. Sapeva bene che non ne sarebbe stato all’altezza, lui che non era capace di niente. Come poteva pretende di non lasciarsi sopraffare dal mondo, come poteva addirittura pensare di convertire il mondo? No, lui era meno di niente.
Però sapeva anche che Gesù aveva pregato il Padre per lui, per tutti i discepoli che avrebbero attraversato i secoli, per la Chiesa intera. Sapeva che il Padre ascoltava ed esaudiva sempre la preghiera del Figlio suo. Questo gli bastava.

martedì 26 marzo 2013

Marsiglia: Davanti a necessità nuove la carità inventa mezzi nuovi

Marsiglia quest’anno è stata dichiarata capitale europea della cultura. Meritava quindi visitarla. Peccato che monumenti di grande valore con La Major e la nuova cattedrale fossero chiuse: chissà cosa intendono i francesi per cultura…
La nostra visita era molto selettiva: continuare a seguire le orme di sant’Eugenio, grande vescovo di questa città, dove ha vissuto 38 anni della sua vita. Dal porto vecchio, dove rivedi le scene di una volta, la pescivendola, i pescatori che rassettano le reti…, al Santuario di Notre Dame de la Garde, l’abbiamo percorsa in lungo e in largo, complice un sole splendente e un vento gagliardo.
Abbiamo ripercorso i vicoli del quartiere Panier, il più povero e colorito della città, dove gli Oblati hanno vissuto e operato dal 1822 al 1975, tra immigrati, mendicanti, prostitute… I padri Albini e Semeria dettero il via all’opera degli italiani, gli immigrati di allora (erano 40.000), padre Honorat a quella dei carcerati (gli Oblati erano cappellani del carcere), degli ammalati (gli Oblati erano cappellani dell’ospedale)… Agli italiani si sono succediti gli emigranti dalle Antille, dalle Comore, i marocchini, i senegalesi… e gli Oblati sempre con loro. 
In quella prima metà dell’Ottocento il vescovo de Mazenod, saliva e scendeva per quelle stradine, entrava nelle case, assisteva gli ammalati, portava la comunione, confessava, amministrava la cresima, sempre parlando in provenzale… “Un’altra mattinata come questa, scrive ad esempio un giorno nel suo diario, e non ce la farò più. I soldi per i poveri che mi chiedono aiuto in un modo o nell’altro si trovano, ma trovarmi sempre faccia a faccia con persone così provate e sentirmi incapace di rispondere alle loro necessità va al di là delle mie forze. Una vedova che ha perso il marito in Guayana e che non ha un soldo né per vivere né per trovare al suo paese. Un giovane belga che è uscito dall’ospedale dove ha speso tutto quello che aveva e che, debilitato dalla malattia non ha come tornare in patria. Una donna anziana che ha messo tutto al monte di pietà e che non sa come fare a raggiugere il figlio…. E quante miserie ancora incontro ogni giorno. Non ne posso proprio più. Devo poi raccomandare une vedova all’avvocato, scrivere una lettera di raccomandazione… Dopo tutto questo come faccio a sedermi a tavola e mangiare in pace…”.
Per questo le inventava di tutte, suscitando più opere di carità che poteva: “Le opere di carità si moltiplicano – scriveva in una lettera pastorale alla diocesi – grazie a istituzioni nuove che hanno per fine l’infanzia, la vecchiaia, la malattia, la povertà, il mondo operario… La carità abbraccia tutto e davanti a necessità nuove inventa, quando ce n’è bisogno, mezzi nuovi”.

lunedì 25 marzo 2013

Con la comunione dei santi in cuore

La casa della mamma di sant'Eugenio
È il terzo giorno che percorriamo le strade di Aix sulle tracce di sant’Eugenio: il palazzo dove è nato, la chiesa parrocchiale, oggi inesistente perché distrutta dalla Rivoluzione francese, il collegio dove studiava da piccolo prima di fuggire in esilio, la casa della mamma, il palazzo delle feste giovanili… Seguiamo i suoi passi e ci ritroviamo sui passi di Gesù. Oggi stiamo visitando i luoghi della sua giovinezza tormentata, con i dubbi, i sogni, le delusioni, la ricerca di un futuro incerto: «Chi direbbe che sono giovane? – scrive al padre lontano. Sotto il peso dei miei ventun anni mi sento il più vecchio degli uomini. Non conosco altro rimedio contro la noia che l’occupazione; ma occuparmi di che?... Non ne posso più carissimo papà; sono morto di noia e di malinconia».
Nello stesso tempo sente l’attrattiva di Dio e la bellezza del cristianesimo. Quando in cattedrale sente un canonico che inneggia alle vittorie dell’esercito francese, reagisce con la forza dei suoi vent’anni:  Dio è il Dio anche degli austriaci, degli italiani, dei prussiani «tutti nostri fratelli che Lui ci ha severamente comandato di amare come figli dello stesso Padre davanti al quale, come dice l’Apostolo, non c’è alcuna eccezione di persona né di nazione, dal momento che professiamo la stessa fede».
Il chiostro della cattedrale
Mi suonano bene queste parole in questi giorni che sto facendo da guida a cinque studenti Oblati di cinque diverse nazioni. Stati Uniti, Haiti, Sri Lanka, Polonia, Nigeria.
Due anni più tardi il sentimento della fraternità cristiana, anzi cattolica, cioè universale, aveva preso pienamente piede nell’animo di sant’Eugenio: «Una delle cose che maggiormente mi colpiscono nella religione è la cattolicità, la comunione che c’è tra i figli di uno stesso Padre il quale, dall’alto del Cielo, accoglie le preghiere che essi gli rivolgono nello stesso istante e da luoghi tanto diversi. Quando entro in una chiesa per deporre ai piedi dell’Eterno le mie umili preghiere, il pensare che sono un membro di questa grande famiglia di cui Dio stesso è il Capo; il pensare che, in quel momento, sono il rappresentante dei miei fratelli, che parlo in nome loro e per loro, mi fa spaziare ed elevare l’anima in un modo che è difficile esprimere. Sento che la missione che compio è degna della mia origine. Figlio di Dio, provo una dolcezza, una gioia, una pace così profonda che l’anima ha come il presentimento che, uscita dalle mani di Dio, non sarà perfettamente felice se non quando, liberata da ogni legame terreno, potrà volgersi unicamente alla contemplazione del suo creatore». 

domenica 24 marzo 2013

Pericoloso tagliare la testa dei santi, parola di sant’Eugenio


Nel 1816 la domenica delle Palme cadeva il 7 aprile. Quel giorno ad Aix-en-Provence veniva riaperta al culto la chiesa della missione. La Rivoluzione francese aveva espulso le 18 monache Carmelitane che abitavano nel convento e trasformato la chiesa in tempio della Ragione. Poi la chiesa era divenuta una spelonca dove alloggiavano viandanti, soldati di varie truppe d’occupazione e così via. Quando il 2 ottobre 1815 sant’Eugenio de Mazenod l’acquistò, assieme al convento, per farne la sede della sua opera missionaria nascente, vi pioveva dentro ed era in uno stato d’abbandono da far paura. La restaurarono alla meglio e quel 7 aprile dell’anno successivo si riaperta al pubblico.
Oggi, domenica delle Palme, sono qui a rivivere quell’evento. Non è rimasto nessun documento su come fo vissuto ad Aix quella giornata del 1816, ma non fu certamente più bella di quella di oggi. La chiesa è ancora un centro di spiritualità e di fede, dove le persone vengono a confessarsi da tutta la città, dove si svolgono liturgie vive e semplici, con grande partecipazione. La pioggia ci ha impedito di uscire fuori per la processione con gli ulivi, ma si è fatto ugualmente festa, cantando al Signore che viene.
Ieri sera, quasi a festeggiare la mia venuta (così almeno la mia interpretazione), nella chiesa si è tenuto un concerto corale. La chiesa e il suo chiostro sono infatti un punto di convergenza anche culturale e artistico, oltre che spirituale.
Sant’Eugenio, dalla sua nicchia, si gode lo spettacolo come duecento anni fa. C’è infatti la sua statua ufficiale, moderna, ma ce n’è anche una antica, dove è “mascherato” da san Rocco. La Rivoluzione francese non tagliava soltanto le teste a uomini e donne, ma anche alle statue dei santi. Così, nella chiesa delle Carmelitane, aveva tagliato le teste anche alla statua di san Rocco. Quando sant’Eugenio iniziò a restaurare la chiesa gli amici misero una testa nuova a san Rocco, ritraendo il giovane zelante Eugenio de Mazenod…
Hai vogli a tagliare le teste ai santi… rispuntano sempre! Anzi è santi si moltiplicano!

sabato 23 marzo 2013

Il turbamento di apa Pafunzio e la gioia di Gesù

Nella circolarità della sua preghiera al Padre Gesù continuava a parlare del mondo.
Egli era venuto nel mondo perché il Padre amava talmente il mondo da mandare il suo Figlio nel mondo. La missione che il Padre gli aveva affidato era salvare il mondo.
Eppure Gesù avvertiva la forte resistenza del mondo alla sua Parola. Egli era la Luce venuta per illuminare il mondo, eppure parte del mondo faceva scudo alla sua luce e preferiva rimanere nella tenebra.
Due mondi si contrapponevano, quello di coloro che accoglievano Gesù ed erano salvati, quello di coloro che non lo accoglievano ed erano condannati; il mondo che entrava nella luce portata da Gesù e il mondo che rimaneva nella tenebra.
Apa Pafnunzio ripetendo e ripetendo a memoria il Vangelo di Giovanni aveva ben compreso i diversi significati nella parola mondo. Quello che non riusciva a capire era lo scacco subito da Gesù con Giuda.
Gesù aveva custodito quelli che il Padre gli aveva affidato; li aveva custoditi tutti. No, non tutti, uno gli era scappato: “Nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione”, il figlio che, nonostante tutte le sue cure, si era perso. Si poteva dunque accogliere la luce, esserne illuminati e poi ricadere nelle tenebre? Gli sembrava impossibile, come doveva essere parso impossibile allo stesso Gesù. Era per lo meno incomprensibile, nonostante tutte le spiegazioni che apparivano qua e là nei Vangeli, nessuna delle quali convincenti.
Poco prima, durante la cena, al pensiero del tradimento, Gesù si era turbato, anzi il Vangelo lo diceva “profondamente turbato”. Come poteva essere altrimenti.
Anche apa Pafnunzio era turbato ogni volta che leggeva di quel tradimento. Dunque si poteva essere stati con Gesù, illuminati dalla sua luce, e poi tornare nel buio: “Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte”.
“Il Padre ci custodirà, il Figlio ci ha custodito – continuava a ripetersi apa Pafnunzio – eppure uno di noi si è perduto. Non potrei perdermi anch’io, rifiutando l’amore e la custodia premurosa di Dio?” Si rese conto di quanto fosse esigente l’adesione a Gesù e di quanto occorreva vigilare per non essere succubi del male. Non ci aveva insegnato Gesù stesso a pregare ogni giorno: “Padre… liberaci dal Maligno?”.
Con quel turbamento nel cuore apa Pafnunzio continuò la recita della preghiera sacerdotale di Gesù. Con grande meraviglia, subito dopo la costatazione che uno si era perduto, apa Pafnunzio sentì che Gesù chiede al Padre per i suoi la pienezza della gioia. Che contrasto tra turbamento e gioia.
Si ricordò allora le parole di Neemia: “La gioia del Signore è la vostra forza”. Che fosse questo il segreto? Lasciarsi inondare dalla gioia di Gesù? Proprio durante la cena Gesù aveva appena promesso la sua gioia. “Sì, si ripeté apa Pafnunzio, devo lasciarmi inondare il cuore della gioia di Gesù. Col Dio nel cuore si è sempre in festa, anche nel dolore, e l’amore è più forte della morte: La gioia del Signore è la vostra forza”.

venerdì 22 marzo 2013

Giovanni Santolini – Eroe per abitudine


Quel 23 marzo 1997, quando p. Giovanni ci lasciava, era la Domenica delle Palme.
Così lo ricorda il sito del Movimento dei Focolari:
Originario di Genova, fin da adolescente Giovanni ha un sogno: «Ho capito che se non diventavo santo la mia vita non avrebbe avuto senso; perciò mi sono messo sotto a diventare 'santo'.»
Da sempre esuberante e fuori dagli schemi, sente così la vocazione del missionario e consacra la sua vita agli Oblati di Maria Immacolata (OMI), con il sogno di morire da martire. Solo con gli anni, comprende invece che «in fondo, vivere il Vangelo lì dove sei, non significa altro che prendere l'abitudine di dare la vita (…) hai talmente l'abitudine di amare, che diventi 'eroe per abitudine'.»
Quando Giovanni sente dire che nelle terre artiche si può ancora morire come martiri, chiede di essere ammesso nell'ordine degli Oblati di Maria Immacolata che lì avevano una missione.
Nell'anno di diaconato, l'entusiasmo però cede il posto alla desolazione. Come racconta lui stesso, si sente rapinato di quanto più gli è caro: la santità. Solamente dopo aver approfondito la Spiritualità dei focolari, alla quale gli OMI sono profondamente legati, sfuma l'idea del missionario-eroe e subentra la convinzione che la vera via della santità è quella dell'amore, del servizio concreto.
Passano ancora cinque anni e, nel 1987 un trentatreenne Padre Santolini finalmente parte lo Zaire (oggi Congo). Inizia la sua vita presso la missione di Kinshasa (la capitale) senza mai misurare le forze: insegna, gestisce l'amministrazione, segue una ad una tantissime persone,...
Oltre al suo entusiasmo, Giovanni colpisce per la sua semplicità. Il suo 'letto' è ricavato sopra un armadio. Collegato a questo con un asse su un secondo armadio c'è il suo 'rifugio': la sua cappellina.
Padre Santolini anima anche la nascente comunità dei focolari di Kinshasa. Dopo qualche anno è ormai così numerosa, che Chiara Lubich si convince ad aprirvi persino un focolare!
Giovanni rimane coraggiosamente in Zaire anche durante la grave crisi del 1995. Allo scoppio delle ostilità è in Italia. Con la naturalezza di sempre, riprende l'aereo per lo Zaire: il solo bianco a bordo!
In quel periodo le occasioni per testimoniare con coraggio la propria fede non mancano di certo. Quando ad esempio alcuni militari sequestrano due 'suoi' seminaristi, Giovanni ha persino l'ardire di inseguirli. Continua a correre anche quando i militari gli puntano le armi contro, sparano le prime raffiche verso l'alto e...infine gli sparano addosso! Non può certo sapere che le armi sono caricate a salve, ma è proprio la sua determinazione coraggiosa a convince i soldati a rilasciare i prigionieri.
Ricorda un confratello: “Giovanni progressivamente ha guadagnato l'ultimo posto. Era diventato sempre più semplice.” Un tempo così affascinato dall'idea del martirio, muore in un banale incidente in moto il 23 marzo 1997.
Così come ormai ogni momento della sua giornata, anche in quel momento stava compiendo l'ennesimo atto d'amore: era infatti atteso in focolare per parlare della Madonna a un gruppo di giovani. Ne siamo certi, ora Padre Santolini si trova insieme a lei e con lei continua a spendersi infaticabilmente per le tantissime persone amate in vita.

giovedì 21 marzo 2013

Come apa Pafnunzio si sentiva “custodito” dal Padre



Apa Pafnunzio si commosse al pensiero che Gesù prega il Padre di custodire i suoi discepoli. Quell’ultima sera Gesù continuava a ripetere quella parola: “custodire”. Fino a quel momento era stato lui a custodire i discepoli. Aveva compiuto fino in fondo la missione che il Padre gli aveva affidato. “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato – aveva affermato nella sinagoga di Cafarnao –: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato”. Pochi momenti dopo la sua preghiera, Gesù aveva posto il gesto estremo in difesa dei suoi, consegnandosi nelle mani dei nemici e ottenendo che loro fossero lasciati liberi. “Se dunque cercate me – aveva detto alle guardie nell’orto degli ulivi –, lasciate che questi se ne vadano”.
Com’era denso quel verbo che Gesù continuava a ripetere nella sua preghiera: custodire è vigilanza responsabile, è sorvegliare con amore e premura, è  prendersi cura con tenerezza, è provvedere ad ogni necessità, è preservare dai pericoli, dalle tentazioni… Tutto questo aveva fatto Gesù come pastore buono, nel tempo che era stato con i suoi.
Ma ora egli se ne stava andando, tornava al Padre dal quale era venuto, e stava in ansia per i suoi discepoli. Sapeva le mille difficoltà che li attendevano. A chi avrebbe potuto affidarli se non allo stesso suo Padre? Stava a lui adesso custodirli dal Maligno e da tutte le ostilità del mondo: “Padre santo, custodiscili nel tuo nome… Ti prego che tu li costudisca dal Maligno”.
“Gesù ha pregato per noi, per me – continuava a ripetersi apa Pafnunzio. Anche se sono perduto in questo deserto, anche se tante volte mi sento solo e indifeso davanti alle prove della vita, non sono solo e indifeso: sono custodito dal Padre. Vuoi che il Padre non ascolti la supplica del Figlio suo? Sono un suo raccomandato! Di cosa posso se sono custodito dal Padre?”

mercoledì 20 marzo 2013

21 marzo, primavera



Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.

(Giacomo Leopardi, Il passero solitario)

martedì 19 marzo 2013

Uso improprio del tablet…


Da poco tempo possiedo anch’io un tablet. Le prestazioni sono limitate, ma mi è molto utile soprattutto nei frequente viaggi alleggerendomi dei molti libri che ero solito portare con me. È talmente robusto che potrei schiacciarci le noci, lo schermo così lucido che potrei specchiarmi. Ma non lo utilizzo né come schiaccianoci né come specchio, uso improprio e, nel primo caso, potenzialmente dannoso: sarebbe sprecato, meglio attenersi alle istruzioni del programmatore. Riflessione ovvia e forse anche un po’ stupida.
Se invece la metafora del tablet, per un guizzo analogico, richiama la mia persona, la riflessione non la trovo più tanto ovvia. Mi sorprendo spesso ad utilizzare le mie risorse – intelligenza, fantasia, energie… – in maniera impropria, in azioni per le quali non sono stato “programmato”. Guardandomi attorno non mi sembra di essere il solo. Basta una manovra appena fuori posto con l’auto che subito si scatenano reazioni violente, volgari, del tutto sproporzionate rispetto all’innocuo sbaglio. Ho appena visitato una città, dove non tornavo da anni, e sono rimasto impressionato dalla quantità di vecchi materassi, sedie sfondate, frigoriferi rotti, abbandonati lungo i marciapiedi. Nella appena conclusa campagna elettorale la lotta all’evasione fiscale, alla corruzione, all’appropriazione del patrimonio pubblico, hanno accomunato tutti i politici, segno della consapevolezza che tali comportamenti fanno parte dell’uso indebito del tablet-persona umana. Basta un attimo di lucidità per riprovare il male.
Il dubbio si insinua quando ci si pone la domanda: questo comportamento è proprio male? Perché, se ne ho la possibilità e sono sicuro dell’incolumità, non dovrei approfittare della mia posizione per un tornaconto personale, anche se questo va a discapito della collettività? Da dove riparte la fondazione dei valori che devono guidare il vivere sociale? E chi è preposto alla formazione ai valori? Su questo il silenzio è assordante.
Propongo di tornare al “manuale d’uso” per il corretto “funzionamento” dell’essere umano: l’ha scritto Colui che l’ha creato e si chiama Vangelo.

lunedì 18 marzo 2013

Ti piace il nuovo papa?

In Piazza san Pietro la sera del 13 marzo un giovane parla al cellulare:
“Ciao papà, 'ndo sto? Sto in mezzo alla storia!”

Questa mattina in palestra
- Una signora: “Allora Adele, ti piace il papa?”
- Adele: “Sì, molto”
- Un’altra signora: “È quello che ci voleva adesso”
- Un signore: “Però ha da cambiare, altrimenti quelli lo fanno fuori”.
- Una terza signora: “Eh sì, là dentro son tutti signori”.

Nello spogliatoio:
- Un signore: “… all’asilo ci sono andato soltanto il primo giorno. Le suore ci hanno fatto pregare e non sono più voluto tornare. Mia mamma ha fatto di tutto, ma non sono mai più tornato”.
- Un altro signore: “Te lo sei confessato questo peccato?”
- Il primo signore: “Mi sono confessato quando mi sono sposato”.
- Il secondo signore: “Ma lo sa il papa che sei un peccatore?”
- Il primo signore: “Ieri ha detto che siamo tutti peccatori”.
- Il secondo signore: “No, no, si riferiva proprio a te”.

domenica 17 marzo 2013

La Chiesa ha bisogno di ministri che rinnovino la fede


Grans, 17 marzo 1916.
Oggi, terza domenica di Quaresima, si è conclusa la missione di Grans. La gioia è proporzionale alla stanchezza. Sono state cinque settimane intensissime, senza un attimo di respiro e senza tregua, impegnate in predicazione, visita alle famiglie, colloqui personali nel confessionale, incontri per riconciliare famiglie divise e in lotta tra di loro… Tornando ad Aix avremo modo di riflettere insieme sulla straordinaria esperienza di questa nostra prima missione.
Per il momento trascrivo soltanto alcune righe di una lettera che mi ha scritto quattro giorni fa lo zio Roze-Joannis. In quanto sindaco di questa cittadina, ha una capacità di lettura particolare su quanto qui è accaduto. Mi parla innanzitutto degli “effetti mirabili dello zelo prodotti dallo spirito di Dio ti cui sei animato”. Quindi continua: “Le grazie così abbondanti che egli ti comunica non sono soltanto per te, ma per il bene e la salvezza di molti. La Chiesa ha bisogno, oggi più che mai, di ministri che, con le loro istruzioni, rinnovino la fede che si sta estinguendo, e che con il loro esempio diventino modello per il gregge e risveglino i pastori negligenti”.
Riferendosi poi all’insinuazione di alcuni che ancora non capiscono perché abbia lasciato carriera e nobiltà per diventare prete, mi scrive: “Vivendo e insieme insegnando il Vangelo di Gesù Cristo, come tu fai, stai provando a certuni che hanno avuto dei dubbi ridicoli, che tu non sei entrato nel santuario di Dio per motivazioni umana, ma per una chiamata di Dio”. Ringraziamo Dio per tutto il bene compiuto.
Non vedo l’ora di tornare ad Aix dove potrò riabbracciare il caro p. Tempier che è rimasto lì da solo per accompagnare i giovani della nostra Associazione. (Dal Diario di Sant’Eugenio de Mazenod, lf)

sabato 16 marzo 2013

Nel giardino dell'anima; le anime nel giardino


 “Le anime d’una volta cercavano Dio in loro. Esse stanno come in un grande giardino fiorito ed ammirano un solo fiore… Dio chiede a noi di guardare tutti i fiori…”
Siamo al terzo giorno del grande convegno per il quinto anniversario di Chiara Lubich. Tra le relazioni il mio commento a questa metafora del giardino impiegata da Chiara per descrivere la vita dell’anima. Una metafora che torna frequentemente lungo la storia della spiritualità.

L’analogia più comune è quella con l’anima, nella quale, come in un giardino fiorito, vengono coltivate le più varie virtù. Così, ad esempio, nell’impiego che fa Teresa d’Avila: “Chi comincia deve far conto di tramutare in giardino di delizie per il Signore un terreno molto ingrato, nel quale non germogliano che erbe cattive. Sradicare le erbe cattive e piantarne di buone è lavoro di Dio che supponiamo già fatto fin da quando l'anima si determina per l'orazione e comincia a praticarla. Ora a noi, come a buoni giardinieri, incombe l'obbligo di procurare, con l'aiuto di Dio, che quelle piante crescano: perciò innaffiarle affinché non inaridiscano, e cercare che producano fiori di deliziosa fragranza per ricreare il Signore. Allora Egli verrà spesso a riconfortarsi e trovare le sue delizie fra quei fiori di virtù.” (Vita, 11, 6, Opere, OCD, Roma 19859, p. 114-115).
Non manca l’analogia con l’insieme di una comunità religiosa. Aelredo di Rievaultx, narrando una sua esperienza così descrive la vita del monastero: “L’altro ieri, mentre passeggiavo per i chiostri del monastero, circondato da una schiera di carissimi confratelli e, quasi fossi nelle gioie del Paradiso, ammiravo le foglie, i fiori e i frutti di ogni albero, senza trovare in quella folla nessuno che non amassi o da cui non fossi sicuro di essere amato, fui inondato da una gioia tanto grande che superava tutte le gioie di questo mondo. Sentii davvero che il mio spirito si era trasfuso in tutti e che l’effetto di tutti era passato in me, così da poter dire con il profeta: «Ecco quanto è buono e quanto è gioioso vivere insieme da fratelli»” (L’amicizia spirituale, III, 82, ed. G. Zuanazzi, Città Nuova, Roma 1997, p. 334).

venerdì 15 marzo 2013

Ricordando Chiara


Intervista alla Radio Vaticana:
http://media01.radiovaticana.va/audio/ra/00361956.RM

In Italia e in tutto il mondo il Movimento dei Focolari ricorda in questi giorni la propria fondatrice, Chiara Lubich, scomparsa 5 anni fa, esattamente il 14 marzo 2008. Tante le iniziative promosse per l’occasione. All’Università “La Sapienza “di Roma, si terrà oggi un Convegno internazionale dal titolo: “Chiara Lubich. Carisma, Storia, Cultura” che intende esplorare la dimensione culturale del suo carisma. Inoltre l’Amministrazione Capitolina ha voluto dedicare alla Lubich la stazione della metro B1 di viale Libia, con lo scoprimento di una targa in cui, tra l’altro, si legge: “da qui ha diffuso nel mondo l’ideale della fraternità universale”. Ma torniamo al Convegno: Adriana Masotti ha chiesto a padre Fabio Ciardi, membro del Movimento e Professore di Teologia della Vita Consacrata alla Pontificia Università Lateranense di Roma, se è vero che la valenza culturale delle intuizioni di Chiara Lubich è un aspetto ancora poco conosciuto: 

R. – In effetti, ciò che viene in luce, quando si pensa a Chiara Lubich è soprattutto la sua spiritualità, ma ha una tale profondità il suo pensiero, come in genere quello dei grandi fondatori, dei grandi carismatici della Chiesa, che di fatto da questo carisma si può enucleare una dottrina e questo convegno sarà uno sguardo alle varie discipline – dall’economia, alla politica, al diritto, alla sociologia – che traggono dal pensiero di Chiara, appunto, dei valori, dei principi che possono dare un contributo notevole ai loro rispettivi campi.

D. – Può farci un paio di esempi, appunto, sulla luce che questa dottrina getta sulle discipline umane?

R. – Bè, innanzitutto nel campo dell’economia: per esempio, l’economia di comunione. Cioè, tante aziende, legate tra di loro, si ispirano ai principi di Chiara Lubich per una nuova forma di economia. Lo stesso nel campo della politica: ci sono operatori, a vari livelli della politica, che insieme si lasciano ispirare da questo pensiero di Chiara, della fratellanza universale. In questi giorni si tiene all’Università Sophia di Loppiano, proprio un seminario internazionale in cui si riflette su questa categoria della fraternità dal punto di vista politico, spesso ignorata o sottovalutata.

D. – Il convegno di Roma è promosso dal Centro Studi Scuola Abbà, dei Focolari, che da oltre 20 anni riflette, appunto, sulla valenza dottrinale del pensiero di Chiara. Questo vuol dire, quindi, che non tutto di Chiara è stato già detto e capito?

R. – Io penso che siamo soltanto all’inizio, perché dietro al carisma di Chiara c’è veramente un’esperienza mistica di cui si conosce ancora molto poco. A lei, Dio si è manifestato in una maniera tutta particolare, e nel periodo luminoso che risale agli anni ’49 – ’50, in cui appunto Dio le ha mostrato qualcosa di più, profondamente – come ha fatto con tutti i grandi mistici – della sua vita interiore, di quel periodo abbiamo tanti appunti di Chiara. Molte volte lei ha raccontato quello che ha vissuto, quello che ha capito di quel periodo. E lei stessa, ad un certo momento della sua vita, si è resa conto della valenza di questo suo pensiero e allora ha voluto attorno a sé dei professori, degli studiosi delle varie discipline, perché insieme potessero scavare questa sua esperienza e farne scaturire tutta una nuova dottrina.

D. – Padre Ciardi, c’è una regola della Chiesa che prevede che, salvo rare eccezioni, si debba aspettare cinque anni per avviare il processo di beatificazione di una persona di cui sia nota una particolare vita secondo il Vangelo – cinque anni dalla morte. Ecco: questo è il quinto anniversario dalla scomparsa di Chiara Lubich. C’è qualcosa che si sta muovendo nel Movimento, in questo senso?

R. – Il desiderio di tutti è che venga riconosciuta la santità di Chiara. Lei ha voluto lasciare al Movimento come eredità proprio la sua santità. Una volta ha detto: “Ma se io non vi lascio la mia santità, che cosa vi lascio?”. Ora, da parte dei membri del Movimento c’è questa consapevolezza che lei è veramente uno strumento dello Spirito, che si è lasciata lavorare da Dio, per cui, da parte del Movimento, c’è questo desiderio che si avvii anche tutto il lavoro di studio perché tutta la Chiesa prenda coscienza di questa santità. Siccome Chiara è morta a Rocca di Papa, quindi in diocesi di Frascati, sarà però compito del vescovo di Frascati avviare – eventualmente – questo processo di beatificazione. Il Movimento dei Focolari si farà presente e già lo ha fatto, già ha manifestato a mons. Raffaello Martinelli, il desiderio di aprire la causa.

D. – Questo anniversario cade nel primo giorno di pontificato di Papa Francesco. Le vorrei chiedere, allora, di dirci qualcosa sul rapporto tra Chiara Lubich e i Papi che lei ha incontrato sul suo cammino …

R. – Lei si è incontrata con tutti i Papi, da Pio XII fino a Benedetto XVI; non ha incontrato Giovanni XXIII, che di fatto però è stato quello che ha approvato il suo Movimento. Specialmente con Giovanni Paolo II, Chiara diceva che ogni volta che si incontrava con lui le accadeva qualcosa che non succedeva nel rapporto con nessun’altra persona: cioè, provava una profonda unione con Dio, unica nel suo genere. Quindi, quando finiva l’udienza, lei usciva e le rimaneva soltanto questa profonda unione con Dio: le sembrava di aver toccato il Cielo con un dito! E lì trovava la forza e la gioia e il conforto per continuare il suo lavoro. Quindi, questo penso che anche per noi sia un segnale, cioè: del Papa non chiedersi tanto se è un italiano, non è un italiano, sa le lingue, non sa le lingue, è aperto, è meno aperto … Queste sono cose secondarie! Lei vedeva nel papato il carisma petrino, e quindi con questo sguardo limpido di fede, ogni incontro con il Papa le faceva aprire come una finestra sul Cielo. E il Papa faceva la sua funzione di mediazione, fino a scomparire, e alla fine rimaneva non il Papa, non l’incontro con il Papa, ma l’incontro di Chiara con Dio.

D. – Questo fatto di vivere giorni così particolari nella Chiesa influenzerà un po’ il clima del convegno?

R. – Sicuramente! Infatti, questo convegno non è chiuso in sé: vuole essere anche una risposta alle attese della Chiesa. Quindi, vivremo in piena sintonia con l’evento che si svolge in Vaticano.



Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2013/03/13/5_anni_fa_moriva_chiara_lubich,_fondatrice_dei_focolari._tante_l/it1-673004
del sito Radio Vaticana 

giovedì 14 marzo 2013

Papa Francesco. Segnali nuovi per la Chiesa

È tutto il continente dell’America Latina che si esprime in un papa, così come la Chiesa dell’Oltrecortina si era espressa in Giovanni Paolo II. Se la Chiesa dell’Est europeo era stata la più eroica e fedele nel martirio, quella del Sud America è stata la più vivace nel periodo postconciliare. Ha fatto suoi i problemi dei poveri e della giustizia, ha inventato le comunità di base, penetrazione capillare del Vangelo fin negli ambienti più umili e dimenticati, ha elaborato una teologia capace di rispondere alle attese della gente. Da lì doveva venire il papa per la Chiesa universale.
Ma già questa parole, papa e Chiesa universale, pur vere, non collimano pienamente con le prime parole pronunciare da Jeorge Mario Bergoglio, che nel suo breve discorso dalla loggia delle benedizioni non ha mai pronunciato la parola papa, preferendo parlare di vescovo di Roma. Anche il suo ricordo, il saluto e la preghiera erano rivolte a Benedetto come “vescovo emerito di Roma”. È già un primo segnale di una Chiesa che si vuole radicata sempre più nel tessuto concreto del popolo di Dio, al punto che prima di benedirlo ne invoca la benedizione.
Un vescovo di Roma che prende il nome di Francesco. Non ne ha ancora spiegato la motivazione, ma è naturale pensare a Francesco d’Assisi e a ciò che esso ha sempre rappresentato per la Chiesa intera e per tanti uomini e donne al di là della Chiesa stessa: il richiamo alla Chiesa dei poveri, ad uno stile di vita essenziale, sobrio, semplice. Ed è un secondo segnale.
Un vescovo di Roma Gesuita. Da quanti secoli non sedeva più sulla cattedra di Pietro un religioso? Ora è come se le due componenti principali della Chiesa si incontrassero in sintesi armoniosa: il profilo petrino e il profilo carismatico. Due realtà che lungo la storia spesso hanno vissuto in tensione tra di loro si trovano riunite nella stessa persona: il successore di Pietro è anche membro di una famiglia carismatica. Un ulteriore segnale che lo Spirito Santo vuol dare alla Chiesa? Vuole forse ricordare che la dimensione gerarchica e quella carismatica, pur nella loro distinzione e peculiarità sono espressioni dell’unico Spirito? Un invito ad una nuova comunione tra tutte le componenti ecclesiali per rispondere insieme alle attese e alle urgenti delle nostre società, un invito a quell’unità chiesta da Gesù al Padre come indispensabile perché il mondo creda.
Papi Benedettini, Agostiniani, Domenicani, Francescani, Cistercensi…, mai Gesuiti. La Compagnia di Gesù è nata dal “sentire cum Ecclesia” di Ignazio di Loyola, che nella Formula Instituti, la regola fondamentale dei Gesuiti, dichiara come la Compagnia vuole militare per Dio e servire solo Cristo e la sua Chiesa e che per questo è «a disposizione del Romano Pontefice, Vicario di Cristo in terra… fedelmente obbedienti al ss.mo signor nostro il Papa Paolo III e agli altri Romani Pontefici suoi successori». I Gesuiti fanno al papa uno speciale voto di obbedienza in forza del quale egli può disporre di ognuno di loro come meglio crede, così che la missione apostolica abbia «una più sicura direzione dello Spirito Santo». Così è stato lungo questi cinque secoli: un gruppo di uomini nelle mani del papa totalmente disponibile a continuare la missione di salvezza di Gesù. Ancora un segno di una Chiesa che non può rinchiudersi nei propri problemi interni, ma è chiamata ad aprirsi sull’umanità intera per portare ovunque la novità e la speranza del Vangelo.

mercoledì 13 marzo 2013

La “debolezza” di Chiara Lubich. A cinque anni dalla morte


Quando il preside del Claretianum, nella riunione del consiglio accademico, mi affidò il compito di tessere la laudatio per il Dottorato honoris causa che sarebbe stato conferito a Chiara Lubich, provai un profondo senso di gioia. Avrei potuto esprimere pubblicamente il mio grazie a Chiara per tutto quello che aveva donato alla vita consacrata e a me personalmente. Speravo fosse una sorpresa e pregustavo il momento in cui, salito sul podio, davanti a lei avrei motivato il conferimento della laurea illustrando la profondità della sua dottrina e la novità della sua opera di fondatrice. Pochi giorni prima si ammalò improvvisamente, gravemente e partì per l’estero per le cure necessarie. Il 25 ottobre 2004 venne una delle sue prime compagne a ritirare il dottorato e a leggere la lezione magistrale che lei aveva preparato. Esposi la mia laudatio nella fiducia che Chiara avrebbe almeno visto il video, ma era diverso, lei non c’era.
Una malattia misteriosa quella di Chiara, che la tenne lontano dai suoi per più di due anni. Anche quando tornò nella sua casa a Rocca di Papa, per lungo tempo non la si poteva visitare. Cos’era questa malattia, perché così prolungata, cosa stava vivendo?
Un giorno, nel maggio del 2007, una felice coincidenza mi porta al Policlinico Gemelli di Roma dove Chiara è ricoverata per dei controlli. Mi intrattengo nella sala d’aspetto conversando con la sua segretaria, fino a quando vengono a chiamarmi: avrei potuto darle un breve saluto. Entro nella stanza. Lei è seduta su una poltrona. È lei, la Chiara di sempre. Mi saluta con un filo di voce e un tocco di umore: “Ecco Padre Fabio che va in giro per il mondo!”. Sì, sono da poco tornato da Cuba e lei lo sa, mi segue sempre. Le porto il saluto di un religioso brasiliano che ha appena sentito a telefono e lei mi precede indovinando il nome: presentissima come sempre! Sì, è la Chiara di sempre.
Ma come è diversa. Il volto smagrito ingigantisce gli occhi belli, mai così grandi. La pettinatura è dimessa. Al naso il tubicino che la alimenta. La parola non è nitida… Ma c’è qualcos’altro che me la fa apparire diversa. Forse lo sguardo. Sì, lo sguardo. È come se tradisse insicurezza, smarrimento. Mentre mi parla di tratto in tratto cerca con gli occhi le due compagne che la vegliano quasi per trovare un sostegno nella conversazione con me, pur così breve.
Dov’è la Chiara energica e sicura che ho conosciuto da sempre? Per anni, assieme al gruppo di studio “Scuola Abbà”,  ho avuto modo di incontrarla regolarmente, ogni quindici giorni. L’ho frequentata dal 1973 e mi sono sentivo sempre particolarmente prediletto (forse tutti quelli che l’hanno incontrata hanno avuto la stessa impressione…). Ha sempre incoraggiato tutti, sostenuto tutti, guidato la sua opera così vasta e complessa con sicurezza e braccio forte. E adesso… Dov’è la Chiara che manda in delirio migliaia di giovani negli stati, nei palazzi dello sport? La Chiara che parla davanti al Papa in piazza san Pietro a Roma, che gli conduce in udienza centinaia di vescovi? La Chiara che incontra politici e capi di stato, che riceve cittadinanze, che gira il mondo, di continente in continente, che dialoga con leaders religiosi, che abbraccia le folle?
Ho incontrato una persona ormai anziana, debilitata da una lunga malattia, in uno stato di fragilità che non avrei immaginato. Eppure, stranamente, esco da quella stanza d’ospedale con una gioia indicibile, catturato da quegli occhi che dicono soltanto amore; altro non hanno mai saputo dire. E subito mi tornano in cuore alcune righe di una sua lettera, scritta tanti anni prima, nel 1944, ad una persona ammalata:

«Gesù ha convertito il mondo colla parola, coll'esempio, colla predicazione; ma l'ha trasformato colla prova dell'Amore: la Croce.
Lassù per due ore e mezzo, in quello stato di tremenda angoscia e terribile dolore, attirò i cuori a sé.
Credi, (…) vale di più un minuto della tua vita in quel lettino bianco, se con gioia tu accetti il Dono di Dio che è sempre: dolore, che tutta l'attività d'un predicatore che parla e parla e poco ama Iddio».

L’avevo letta questa pagina, tante volte, meditata, spiegata nelle mie lezioni. Ora la vedo attuata da Gesù in Chiara, da Chiara fatta Gesù, da Gesù fatto Chiara. E mi domando: quando questa donna carismatica ha dato davvero vita nella Chiesa alla grande e nuova opera dei Focolari? Quando appariva “vincente” e, piena di energie, dava orientamenti sicuri al suo movimento, lo indirizzava saldo nel suo sviluppo nei cinque continenti? O non adesso che non può più dirigere e organizzare, che non può scrivere e donare i suoi temi, rispondere alle domande…? Comprendo in maniera nuova la più bella parabola evangelica: in questo momento Chiara è il chicco di grano che sta cadendo in terra e muore per portare molto frutto. È così che avviene la generazione della vita.
Ne ho avvertito forte la conferma il giorno del suo funerale, nella basilica di san Paolo fuori le mura. Al termine della celebrazione, contro ogni protocollo, assieme a tanti altri sacerdoti ho potuto inginocchiarmi a baciare la bara. L’ho poi accompagnata, inaspettatamente, con il piccolo corteo, lungo la basilica, nel chiostro, all’esterno, fino alla macchina che l’attendeva. Ho potuto così attraversare la folla che piangeva e gioiva in una festa d’esultanza. Il corteo procedeva lento, si arrestava, pochi passi e si arrestava di nuovo, dandomi il tempo per salutare tutti.
Ed ecco la sorpresa: mi sono accorto di quante persone conoscevo, tra quelle migliaia che riempivano la basilica e la assiepavano al di fuori. Ho stretto tante mani, ho ricambiato tanti saluti. Persone non soltanto conosciute, ma con le quali mi sentivo legato da un affetto sincero. E quelle che non conoscevo mi conoscevano e mi salutavano, chiamandomi per nome, come uno della famiglia. Era il popolo di Chiara. Era come se vedessi Chiara moltiplicata nella sua gente: sul volto di ognuno il volto di Chiara. Ecco il chicco di grano caduto in terra e morto che porta il suo frutto, mi son detto, ed ecco davanti a me la spiga piena. 

martedì 12 marzo 2013

Come apa Pafnunzio fu coinvolto nel rapporto tra Padre e Figlio

Dopo che per giorni continuava a recitare la preghiera sacerdotale di Gesù, apa Pafnunzio si era reso conto che essa somigliava alle parole degli innamorati che tornano e ritornano a ripetersi, senza mai stancarsi di dire e ridire le medesime cose.
Gesù amava ricordare al Padre che tra loro tutto era comune, frutto di una reciproca immanenza: “Tutte le cose mie sono tue, e tutte le cose tue sono mie”; “Tu, Padre, sei in me e io in te”; e ancora: “Noi siamo una sola cosa”.
Erano dunque queste le parole che Gesù rivolgeva al Padre quando la notte si ritirava a pregare in luoghi solitari? Quando sentiva la nostalgia del cielo lasciava tutti per stare a tu con il Padre e ripetere: “Tu, Padre, sei in me e io in te… Noi siamo una cosa sola”. Quante volte avrà fatto scorrere in cuore quelle parole?
Quella sera necessitava più che mai di entrare in dialogo profondo con il Padre; stava per affrontare la grande prova e aveva bisogno di sentire il Padre in sé e di sentirsi nel Padre. Soltanto in quel rapporto avrebbe trovato la forza per affrontare passione e morte.
Ma perché, si domandò apa Pafnunzio, quella sera Gesù parlava con il Padre con tanta confidenza ad alta voce, davanti ai suoi discepoli, e non più da solo, in luoghi isolati? Perché li rendeva testimoni del suo rapporto d’amore e di reciproca appartenenza con il Padre? Non era forse per coinvolgere anche loro in quel dialogo, in quell’abbraccio d’eternità?
Ne fu confermato quanto ripeté per intera la prima frase: “Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro”. Dapprima gli risuonarono incomprensibili quelle parole: “Io sono glorificato in loro”. Poi, a mano a mano che entrava nella preghiera, comprese che Gesù condivideva con i suoi la gloria, la vita divina che il Padre e il Figlio si scambiavano, al punto da diventare la gloria e la vita dei suoi discepoli, coinvolti nel circolo d’amore trinitario.
Resi così partecipi di quella vita fatta d’amore reciproco e d’unità, l’avrebbero irradiata nel mondo e dunque avrebbero reso gloria al Figlio, che viveva in loro e tra loro, testimoniandolo: essi avrebbero continuato la sua missione.
Apa Pafnunzio si era ritirato nella solitudine del deserto proprio come aveva fatto Gesù, ma tante volte si era chiesto se avrebbe mai potuto intessere il dialogo con il Padre con l’intensità che Gesù sperimentava solitarie nelle notti di preghiera. Ora non se lo chiedeva più: sapeva che “tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, perché Tu, sei in me e io in te… Noi siamo una cosa sola”. Lui, peccatore, con le sue povere forze, non poteva certo sognarsi di raggiungere il Padre, troppo lontano. Ma in Gesù quella comunione era già realtà.

lunedì 11 marzo 2013

Nella casa di santa Francesca Romana

9 marzo: il “pellegrinaggio” continua al palazzo dei Ponziani, in Trastevere, dove Francesca, dodicenne, arrivò in sposa a Lorenzo. Non le fu facile inserirsi nella nuova famiglia e accettare la rinuncia alla vocazione religiosa, al punto che cadde in uno stato di anoressia. All’alba del 16 luglio 1398 le apparve in sogno sant’Alessio che le diceva: “Tu devi vivere… Il Signore vuole che tu viva per glorificare il suo nome”. E così fu.
Francesca divenne una brava moglie e a 16 anni ebbe il primo dei tre figli. L’anno successivo il suocero Andreozzo, essendogli morta la moglie, le affidò le chiavi delle dispense, dei granai e delle cantine; lei ne approfittò per aumentare gli aiuti ai poveri. Quando Andreozzo vide le dispense vuote avrebbe rivoluto le chiavi, ma pochi giorni dopo granai e botti erano di nuovo prodigiosamente pieni… Francese si prese poi cura dell’Ospedale del Ss. Salvatore fondato dal suocero, fino a chiedere l’elemosina all’entrata delle chiese per i suoi poveri, senza vergogna…
In questa casa visse anche le tragedie familiari: la semiparalisi del marito in seguito a ferite di guerra; lo assistì per tutta la vita, vivendo con lui in armonia per 40 anni; poi il saccheggio della casa, la peste che le portò via due figli, Agnese ed Evangelista…
Dopo aver vissuto gli ultimi quattro anni della vita con le sue Oblate, durante una visita al figlio Battista, Francesca morì in questa casa, sotto il grande crocifisso che ancora è appeso in una delle bellissime sale del palazzo.
Nella cappella del palazzo, in onore di Francesca, si tiene un concerto con musiche sacre medievali. Qui un brano di Ildegarda di Bingen (1098-1179)

domenica 10 marzo 2013

Nella chiesa di Santa Francesca Romana

Dopo essere stato nella casa delle Oblate, il mio “pellegrinaggio” del 9 marzo è continuato fino alla chiesa di Santa Maria Nova, oggi Santa Francesca Romana. È un pomeriggio assolato anche se le nubi scorrazzano minacciose. La passeggiata da Tor de’ Specchi fino al Colosseo è una delle più energizzanti: ti carica di storia e di bellezza. La chiesa di Santa Francesca Romana è sulla via sacra, tra la basilica di Massenzio e il Colosseo. Il campanile medievale è degno dei due monumenti dell’antica Roma.
Qui Simon Mago avrebbe sfidato san Pietro con le sue arti magiche; si conserva la pietra con le impronte delle ginocchia di san Pietro mentre pregava perché Dio punisse la superbia di Simon Mago… Nell’abside lo splendido mosaico  della metà del 1100 raffigurante la Vergine in trono con il Bambino.
Qui veniva da bambina Francesca, con la mamma Jacovella de’ Broffedeschi, accompagnandola nella visita alle varie chiese. La chiesa era tenuta dai Benedettini di Monte Oliveto. Francesca vi trovò il suo primo direttore spirituale, padre Antonello di Monte Savello, che ben presto si accorse della vocazione della fanciulla alla vita monastica. Fu poi lui a convincerla ad accettare la volontà del padre di andare sposa a Lorenzo Ponziani.
Nella cripta la tomba della santa, con il corpo esposto, coperto da un tulle bianco…

Il 9 marzo di quattro anni fa Benedetto XVI, pellegrino da santa Francesca Romana come io oggi, così si rivolgeva alle sue Oblate:
“Il vostro monastero ha una sua peculiarità, che naturalmente riflette il carisma di santa Francesca Romana. Qui si vive un singolare equilibrio tra vita religiosa e vita laicale, tra vita nel mondo e fuori dal mondo. Un modello che non è nato sulla carta, ma nell’esperienza concreta di una giovane romana: scritto – si direbbe – da Dio stesso nell’esistenza straordinaria di Francesca, nella sua storia di bambina, di adolescente, di giovanissima sposa e madre, di donna matura, conquistata da Gesù Cristo, come direbbe san Paolo. (…)
Anche ai nostri giorni, Roma ha bisogno di donne – e naturalmente anche di uomini, ma qui voglio sottolineare la dimensione femminile – donne, dicevo, tutte di Dio e tutte del prossimo; donne capaci di raccoglimento e di servizio generoso e discreto; donne che sanno obbedire ai Pastori, ma anche sostenerli e stimolarli con i loro suggerimenti, maturati nel colloquio con Cristo e nell’esperienza diretta sul campo della carità, dell’assistenza ai malati, agli emarginati, ai minori in difficoltà”.
Mi piace questa esigenza del Papa di essere “stimolato dai suggerimenti” delle donne. Che sia una profezia? Che santa Francesca Romana ispiri il Conclave…