mercoledì 21 agosto 2013

Le gemme di Ratnapura e della madre dei Gracchi



Ratnapura, la città delle gemme. Dista 85 chilometri da Colombo, ma ci sono volute tre ore per raggiungerla. Nelle stradine della capitale occorre andare a passo d’uomo perché alle 9 del mattino, quando siamo partiti, siano nel bel mezzo del mercato che si distende su tutta la carreggiata. Lungo il fiume, fino a Ratnapura il traffico è intenso, perché è un susseguirsi di cittadine e villaggi, quasi una continuazione di Colombo, e poi la strada è quella che è.

Scrosci violenti di acqua annunciano, prima del tempo, l’arrivo della stagione delle piogge; anche qua le stagioni stanno cambiando. Le nubi mi impediscono di vedere il Picco d’Adamo, che so si erge alla mia sinistra; una montagna sacra perché vi è impresso, nella roccia, la grande orma, un mezzo metro, del piede di Buddha, che secondo la tradizione sarebbe venuto in Sri Lanka tre volte. Gli Indù sostengono invece che si tratta dell’impronta del piede di Shiva, mentre per i Musulmani è quella di Adamo, portato qui dopo la cacciata dal Paradiso (la sua tomba, assieme a quella di Eva, sarebbe in India, appena attraversato il Ponte di Adamo che si parte dallo Sri Lanka).

Dopo tre ore Ratnapura, vivace e trafficata come tutte le cittadine dello Sri Lanka. Si lavorano e si vendono le gemme della regione, provenienti sia dai letti dei fiume che dalle piccole miniere della valle: granati, tormaline, ametiste, zaffiri, rubini, alessandrite, occhio di gatto, acquamarina, zirconi, pietra di luna…
 La piccola pianura contenute dalle colline è una tutta una risaia dalle mille tonalità di verdi, tendenti sempre più al giallo, ora che la messe è matura. Tra i campi, disseminate qua e là, la capanne dei cercatori di gemme. Sono squadre di 11 persone, una capanna per alloggiare e un pozzo nel quale scendere a cercare le pietre preziose.
Non posso resistere alla tentazione di andare a visitare questa gente. Lascio la strada e mi avvio per un piccolo sentiero. Mi scorgono mentre mi avvicino e da più parti mi chiamano. Entro in una delle capanne: i lavoratori sono seduti o distesi nell’ora della pausa meridiana. Sul fuoco una pentola con il riso. Parlano soltanto singalese, ma si mostrano contenti e mi portano al pozzo, una larga cavità di una ventina di metri. Al fondo si diramano due gallerie orizzontali dalle quali traggono una densa sabbia fangosa; la tirano su con un argano di legno e la setacciano in cerca delle gemme.
Mentre torno sulla strada si avvicina un giovane con un fagottino pieno di pietre preziose dai mille colori, pensando che voglia comprare: un rubino per 100 euro.
Ora la strada si è fatta deserta e sale gradatamente tra le montagne mostrandomi il volto ancora sconosciuto di questo Paese dalle sempre nuove sorprese. Sui 1800 metri i bananeti e le palme di cocco iniziano l’antagonismo con gli abeti, ma non ce la fanno e devono cedere il passo a loro che si arrampicano dritti e sicuri verso le cime oltre i 2000.
Scendiamo sull’alto versante e si apre un nuovo scenario: dalle cime scendono le fitte e ordinate piantagioni di tè, una delle maggiori ricchezze del Paese. Ci arrestiamo a 1700 metri, Bandarawela, sede del noviziato degli Oblati.
Questa sera 14 giovani entrano in noviziato (1 del Pakistan, 4 del Bangladesh, 9 dello Sri Lanka). Scelgo come tema del mio discorso, la scena evangelica dei due discepoli che seguono Gesù e gli domandano dove abita: l’inizio del noviziato è andare a vedere dove abita Gesù… Domani 11 faranno la loro prima oblazione (4 del Bangladesh e 7 dello Sri Lanka).
Come Cornelia, la madre dei Gracchi dell’antica Roma repubblicana, alla matrona che faceva sfoggio dei suoi gioielli, mostrò i suoi due figli: “Ecco i miei gioielli”, anch’io, a chi voleva vendermi le pietre preziose, avrei voluto mostrare i 25 giovani Oblati, ma lui non ne sapeva niente, né di Lucrezia né dei novizi.


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