lunedì 30 giugno 2014

Luoghi imprevisti, tempi inattesi / 1


Nel suo cammino verso Paddan-Aram, in cerca di una moglie, il patriarca Giacobbe giunge nei pressi della città di Luz. Di notte sogna una scala che unisce cielo e terra: vi salgono e scendono angeli. Al risveglio esclama: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo… Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo». Vi erige una stele e dichiara quel lungo “casa di Dio”, dandole il nome di Betel (Gen  28, 16-22).
Un’altra notte – ha ormai moglie e figli – Giacobbe attraversa il guado del torrente Iabbok. Rimasto solo si trova a lottare con un uomo fino allo spuntare dell'aurora, quando dallo sconosciuto si sente dire: «Hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». «Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel "Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia…"» (Gen 32, 23-32).
Da quando Adamo ed Eva erano stati cacciati dal paradiso, non v’era più un luogo nel quale potersi dare appuntamento per l’incontro con Dio. Come il padre Isacco, come Abramo, padre di suo padre, anche Giacobbe non ha un “tempio” come quello dell’Eden, non ha una terra da condividere con Dio, non una “casa”. Cammina nomade, sotto le tende. Dio non rinuncia però all’incontro. Continua a cercare la sua creatura, si fa viandante con lei e l’attende al varco. Ad Abramo era apparso alle Querce di Mambre, «mentre egli sedeva all'ingresso della tenda nell'ora più calda del giorno». Il vecchio gli corse incontro e lo pregò di fermarsi. Il Signore passava proprio nei pressi della tenda sua tenda, alla quercia di Mambre (Gen 18, 1-3). Ora aveva scelto Betel e Penuel per incontrare Giacobbe. Il patriarca non sapeva che Dio fosse in quei luoghi. Gli appare d’improvviso, senza preavviso, in località che niente, sembrava, avessero a che fare con il divino.
I luoghi dell’incontro non li decidiamo noi, li sceglie lui. I luoghi di Dio sono quelli che egli prepara per lasciarsi trovare e dove spera che noi possiamo trovarlo. I luoghi di Dio sono prima di tutti quelli dell’incontro di Dio con l’uomo, soltanto dopo i luoghi dell’incontro dell’uomo con Dio.
A Mosè chiese di costruire una tenda speciale, la “tenda del convegno”, dove poter venire a incontrare il suo popolo: «Quando Mosè entrava nella tenda, scendeva la colonna di nube e restava all'ingresso della tenda. Allora il Signore parlava con Mosè… Così il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro» (cf. Es 33, 7-11). Dopo aver scelto la città di Gerusalemme come sua sede – così cantano i Salmi – Dio concedesse a Salomone di costruirgli un tempio. Alla sua inaugurazione «la nuvola riempì il tempio… perché la gloria del Signore riempiva il tempio, e Salomone esclamò: “Il Signore ha deciso di abitare sulla nube. Io ti ho costruito una casa potente, un luogo per la tua dimora perenne”» (1 Re, 8, 11-13). Dio ha quindi un luogo dtabile dove poterlo incontrare.
I profeti hanno tuttavia diffidato il popolo dall’adagiarsi sulla sicurezza del possesso di Dio legata al tempio e dall’inutile ripetizione: «Tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore è questo», quasi fosse un mantra magico che garantisce il rapporto con Dio (Ger 7, 4). Il discorso di Stefano, che lo condurrà alla lapidazione, riassume la presa di distanza dal tempio come luogo che imprigiona Dio: David «domandò di poter trovare una dimora per il Dio di Giacobbe; Salomone poi gli edificò una casa. Ma l'Altissimo non abita in costruzioni fatte da mano d'uomo» (Atti, 7, 46-48).
Distrutto e ricostruito e distrutto di nuovo, oggi del tempio non rimane pietra su pietra, come Gesù aveva profetato (cf. Mt 24, 21). Con la morte di Gesù il suo velo, che proteggeva il sacrario interno, il santo dei santi, si squarciò (cf. Mc 15, 38), a significare che ormai esso non racchiudeva più la presenza dell’Altissimo, che si dilata nel mondo intero. O forse il velo che si squarciò era quello che separava la zona dei pagani da quella riservata agli ebrei: il popolo d’Israele non sarebbe più “il luogo” esclusivo della presenza di Dio, resosi ormai accessibile a tutti i popoli. La fede del centurione romano ne è la prova immediata.
Dove dunque ci porterà il desiderio di Dio, per quale le vie incamminarci alla sua ricerca, quali i luoghi dell’incontro?
Inizia così la seconda meditazione per il ritiro di Bari che non farò per mancanza di iscrizioni...

domenica 29 giugno 2014

Pietro e Paolo, gloria e miseria

Quale momento meglio di oggi per camminare sulla via Appia, sulle orme dei santi Pietro a Paolo? Un autentico pellegrinaggio! Gli Atti degli apostoli, parlando del viaggio di Paolo verso Roma, la nominano espressamente.
Camminando con Pietro e Paolo, mi sono chiesto perché nella basilica di san Pietro, in alto, tutto attorno, vi sono scritte le parole del Vangelo di oggi: “Tu sei Pietro e su questa pietra…”, e non sono state riportate le altre parole che Gesù gli dice subito dopo: “Vai via, satana”?
Le prime parole sono frutto della professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Ma questa professione, come spiega Gesù, gli è stata rivelata dal Padre, non è farina del suo sacco.
Mentre è farina del suo sacco il rifiuto di andare a Gerusalemme a morire con Gesù, e gli frutta quella dura condanna di Gesù.
Da noi siamo capaci di dire soltanto degli spropositi e incapaci di capire l’agire di Dio: “Tu pensi secondo gli uomini e non secondo Dio”.
Ci vuole proprio l’aiuto di Dio per fare delle scelte sensate e seguire Gesù fino in fondo, costasse pure la morte.
Papa Francesco oggi all’Angelus ha ricordato che “Simone aveva rinnegato Gesù nel momento drammatico della passione, Saulo aveva perseguitato i Cristiani, ma entrambi hanno accolto l’amore di Dio e si sono lasciati trasformare dalla Sua misericordia diventando amici e apostoli di Cristo… Dio è sempre capace di trasformarci e perdonarci tutti, Dio è così ci trasforma e perdona sempre come ha fatto con Pietro e con Paolo”.
È una testimonianza che dà speranza!
Forse valeva la pena scolpire in San Pietro anche il “Vade retro, satana”, a ricordare che Dio semina la sua grande misericordia nella nostra fragilità.
Il “pellegrinaggio” si è concluso a Castel sant’Angelo, con la “Girandola”, i fuochi con i quali si accende il Castello, ideati da Michelangelo e da Bernini e ingigantiti dai mezzi di oggi. Una scenografia mozzafiato. Ponti, spallette e argini del Tevere straripanti di gente che ha vissuto lo spettacolo con attimi di silenzio col fiato sospeso, esplosioni di applausi, grida di gioia, gli immancabili “Ohhh…” corali e “Bello”, “Bravi”… festa di popolo! Anche i due apostoli patroni di Roma saranno stati contenti.


sabato 28 giugno 2014

La festa dell'infiorata a san Pietro




Sono sceso in piazza san Pietro per pregare il rosario, alla vigilia della festa dei patroni di Roma, Pietro e Paolo. Al crepuscolo la piazza ha un fascino unico. Forse 200 le persone presenti, ma si perdono nella grande piazza e sembra si essere soli, abbracciati dal colonnato bianchissimo, con il cielo che si spalanca ancora azzurro. La grande calma e la grande pace di Roma.

Scendendo verso l’inizio della piazza vedo piazza Pio XII e poi via della Conciliazione disseminata di gazebo e insolitamente animata per quest’ora. Già! stanno preparando l’infiorata per la festa di domani. Sono cinquanta le delegazioni presenti, con 500 delegati e 1.500 maestri infioratori arrivati da tutta Italia e  tutto il mondo, dalla Spagna e dall’Argentina, dal Giappone, Tibet, Messico. Stanno decorando oltre 3.000 mq. con 50 quadri floreali. Lavoreranno tutta la nottata. Sono qui per il V Congresso Internazionale delle Arti Effimere.

C’è una straordinaria aria di festa. Chi lavora, chi consuma la cena, chi si scambia consigli e tecniche tra un gruppo all’altro. Disegnano scene della Cappella Sistina, gli immancabili ritratti di papa Francesco, quadri allegorici... Una fantasiosa creatività. Ma soprattutto la gioia di essere lì, in questo scenario unico al mondo.

Una pioggia di petali per far festa a Pietro e Paolo (e segretamente, ma poi non tanto, a papa Francesco). L’ho presa come una festa per te. Grazie infioratori! Continuate questa tradizione d’arte umile e bella che dà prima di tutto a voi la gioia della festa.

venerdì 27 giugno 2014

Cuore chiama cuore



Da perfetta discepola, Maria segue passo passo il figlio suo. Alla festa del Cuore di Gesù segue quella del Cuore di Maria.
Se del proprio Cuore Gesù dice che è “mite e umile” (Mt 11, 29), di quello di Maria non si dà una descrizione, ma che custodiva parole e cose che riguardavano Gesù (Lc 2, 19.51). Chissà quante cose belle c’erano là dentro. A chi meglio che a lei si addice la beatitudine dei puri di cuore che vedranno Dio?
Oggi è festa dei Claretiani, i Figli del Cuore Immacolato di Maria.
Ma forse anche un po’ di noi Oblati.
Con i santuari mariani abbiamo avuto a che fare fin dagli inizi. Sant’Eugenio ne ha presi in consegna diversi : Notre-Dame du Laus (1818), Notre-Dame de la Garde (1830), Notre-Dame de l’Osier (1834), Notre-Dame de Lumières (1837), Notre-Dame de la Croix de Parménie (1842), Notre-Dame du Bon Secours (1846), Notre-Dame de Sion (1850), Notre-Dame de Talence (1853), Notre-Dame de Cléry (1854). Dopo la sua morte non si contano più e sono diffusi in tutto il mondo.
C’è un posto particolare anche proprio per il Cuore Immacolato di Maria.
Qui in Italia non possiamo dimenticare i Santuari del Cuore Immacolato di Maria a Pescara e ad Aosta. 

Padre Dassy 
Alcuni dei nostri vescovi, come Grandin e Langlois, consacrarono le loro diocesi al Cuore Immacolato di Maria. Un giorno memorabile fu quello della consacrazione della diocesi di Marsiglia. Sant’Eugenio era morto da appena un anno. Gli Oblati erano custodi e missionari del santuario di Notre Dame de la Garde. Il superiore, p. Dassy (fra l’altro fondatore delle Suore di Maria Immacolata), ricorda quel giorno: “Una folla incalcolabile si era accalcata sulle rocce della cappella, due ore prima della cerimonia… La processione si snodava su fino alla cima. Il cielo era bello e i cuori battevano di una gioia pura… Cinque vescovi, tra cui mons. Semeria, il vescovo oblato del Ceylon di passaggio a Marsiglia, chiudevano il corteo... Dopo l’atto della consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, le grida di festa e le acclamazioni si prolungarono a lungo e si spandevano come un eco celestiale per le strade, nelle piazze…”
Ma io non posso dimenticare che per vent’anni ho vissuto in una casa che sulla porta d’ingresso aveva scritto: “Al Cuore Immacolato di Maria”…

giovedì 26 giugno 2014

Festa del Sacro Cuore: l’amore di Dio per tutti


Il card. Guibert consacra il santuario di Montmartre

Festa del Sacro Cuore. “è la festa dell’amore di Gesù Cristo per gli uomini… Onorare il Cuore di Gesù è raggiungere l’amore di Dio alla fonte”. Così sant’Eugenio scrivendo alla mamma. Ai Gesuiti l’onore di aver propagato questa “devozione” e di tenerla viva, tra le altre iniziative, con l’apostolato della preghiera. Ma anche gli Oblati, “Gesuiti di campagna”, come erano definiti nel dizionario Larousse, hanno la loro piccola parte. Il cardinal Ippolito Guibert, uno dei primi giovani che hanno seguito sant’Eugenio, ha innalzato il più grande santuario del Sacro Cuore, quello di Montmartre, a Parigi, e gli Oblati ne sono stati per anni i cappellani, dal 1873 fino alla loro cacciata con la soppressione degli ordini religiosi in Francia. Accanto al santuario, il rettore, p. Giovanni Battista Lémius, fondò l’opera dei poveri. Sul giornale l’Univerts, il 29 marzo 1903, François Vauillot scrisse degli Oblati: “Apostoli pieni di fuoco e di perseveranza, predicatori che si fanno ascoltare e che suscitano la fede, organizzatori solidi e prudenti, trascinatori di folle e creatori di opere”. Da Montmartre le varie associazioni dedicate al Sacro Cuore ne diffusero in Francia e nel mondo intero la devozione.
Vi è poi il santuario nazionale del Sacro Cuore di Bruxelles, affidato dal re Leopoldo II agli Oblati. In Canada l’apostolato del Sacro Cuore è legato al venerabile Victor Lelièvre, che cominciò a celebrare il primo venerdì nel novembe del 1904. Fu l’inizio di un’opera straordinaria tra gli operai, che dicevano “parla come uno di noi”.

Padre Lemius
Gli Oblati hanno utilizzato anche la penna per diffondere l’opera del Sacro Cuore: Alfred Jean-Baptiste Yenveux pubblicò 5 volumi sulla dottrina di santa Margherita Maria Alacoque. Lo stesso i padri Lemius, Anizan…
Il Card, Guibert offre il santuario di Montmartre
“Il Sacro Cuore si è degnato di posare uno sguardo  di predilezione sulla nostra umile Congregazione – scriveva un ignoto Oblati nel 1876 – e l’ha associata ai suoi disegni… ovunque gli Oblati sono gli apostoli di questo culto d’amore e di riparazione” (Missions, 1879, p. 243).
"Abbiamo l’intenzione di onorare e adorare il Sacratissimo Cuore di Gesù ardente d’amore per le nostre anime. Veniamo a testimoniargli la nostra viva riconoscenza, specialmente perché, dopo aver versato il suo Sangue prezioso per gli uomini nella passione e morte, ha voluto rimanere con noi fino alla fine dei secoli nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia, e farsi nostro cibo nel cammino della vita, nostro compagno, nostro amico, nostro viatico per la morte. Vogliamo ringraziarlo senza fine per un così grande amore, servirlo con fedeltà, amarlo con tutto il cuore, lavorare per farlo conoscere e amare dagli altri. Per rispondere al suo amore, vogliamo concorrere con tutti i più degni omaggi di adorazione di amore che gli possiamo rendere, a riparare le mancanze, le offese, le ingratitudini che riceve nel santissimo Sacramento dell’Altare" (Eugenio de Mazenod, Exercice à l'honneur du Sacré Cœur de Jésus…, Aix, Imprimerie de Tavenier, 1822, p. 3-4).

mercoledì 25 giugno 2014

Un desiderio infinito per essere infinitamente appagato



Dopo tanti anni sono tornato all’Università del Laterano. Ho rivisto l’aula dove per sei anni ho insegnato teologia spirituale, ma soprattutto la grande aula, ora intitolata a Paolo VI, nelle quale seguivo le appassionanti lezioni di Bonifacio Honings.
Proprio in questa aula Carlos Andrade ieri ha difeso la sua poderosa tesi sulla Trinità in San Tommaso, nella lettura di Ghislain Lafont, Gisbert Greshake, Hans Urs von Balthasar. Un dibattito ad altissimo livello, come meritava l’altissima speculazione della tesi.
A me l’incontro con san Tommaso non ha potuto non richiamare quel “desiderio di Dio” nel quale sono immerso in questi giorni. Egli parla del “desiderio naturale di vedere Dio” e che questo desiderio non può essere vano, e che quindi “ogni intelligenza creata può raggiungere Dio”. Senza il raggiungimento di questa meta “resta nell’uomo un desiderio insoddisfatto… Egli perciò non è perfettamente felice”.
Dunque non si rimane che dilatare all’infinito i nostri desideri, fino a raggiungere Dio. La vita eterna consiste proprio “nel perfetto appagamento del desiderio dell’uomo. Ciascuno beato infatti possederà in cielo quel bene che si trova al di là di ciò che avrà desiderato e sperato quaggiù. Il motivo è che nessuno può in questa vita soddisfare pienamente il suo desiderio e che nessuna cosa creata può appagare il desiderio dell’uomo. Soltanto Dio può soddisfarlo completamente e addirittura superarlo infinitamente. Per questo l’uomo non trova il suo riposo che in Dio, come afferma sant’Agostino: Tu ci hai fatto per te Signore e il nostro cuore resta inquieto fino a quando non riposa in te. E poiché i santi nella patria possederanno Dio perfettamente, è chiaro che il loro desiderio sarà appagato e perfino superato dalla loro gloria”.

Ecco perché alla fine della vita Tommaso ha chiuso i libri e ha spiccato il volo.

martedì 24 giugno 2014

San Giovanni, che delusione


24 giugno, festa di San Giovanni Battista, patrono di Roma.
La festa aveva inizio la notte prima, la notte più breve dell'anno. La notte delle streghe, che si davano appuntamento nei pressi della basilica per un grande Sabba, chiamate a raccolta dai fantasmi di Erodiade e Salomè, dannate per aver causato la decapitazione di san Giovanni.
Da tutti i rioni, al lume di torce e lanterne, i romani andavano a San Giovanni in Laterano per pregare il santo. Venivano con trombette, campanacci, tamburelli e petardi per impaurire le streghe, affinché non potessero cogliere le erbe utilizzate per i loro incantesimi, e per mangiare le lumache nelle osterie e nei baracchini allestiti sulla piazza
Il giorno di san Giovanni poi, dopo la messa del papa e dopo che dalla loggia aveva lanciato monete d’oro e d’argento, c’era il pranzo in piazza con i parenti.
Ormai le cose sono cambiate, ma la festa, con il palco per le canzoni romane, era sempre rimasta.
Ieri sera sono andato. Che delusione. Neppure le solite bancarelle di una volta. Non si vende più neppure l’erba di san Giovanni!
La piazza è stata affittata a “Sinistra e Libertà” di Vendola, e della festa di san Giovanni neppure l’ombra.
Una signora si lamentava: neppure nei ristoranti attorno c’è più una lumaca…
La basilica di san Giovanni era aperta, ma deserta.

Non si possono abbandonare così le tradizioni di una volta che mantenevano sempre una certa coesione tra la gente. C’è pericolo che tornino le streghe…

lunedì 23 giugno 2014

Giordani e Chiara Lubich in visita alla Trappa



Quindici giorni fa ero a Vitorchiano, nella celebra trappa nata a Grottaferrata e che nel 1950 aveva dovuto cercare un ambiente più grande perché ormai erano troppe le ragazze che volevano diventare suore: Gabriella della trappa o dell’unità, con la sua vita breve e intensa, con la sua offerta per l’unità della Chiesa, aveva attirato tante nuove vocazioni.
La sua vita fu conosciuta in tutta Italia grazie ad una biografia scritta da suor Maria Giovanna Dore, pochi anni dopo la sua morte. Il successo era dovuto alla presentazione del più noto scrittore cattolico dell’epoca, Igino Giordani.
Giordani visitò la trappa di Grottaferrata la prima volta, assieme a p. Mondragone, in una piovosa giornata del gennaio 1940. Così racconta quella visita - riporto alcuni stralci -, dandoci un saggio della sua comprensione della clausura.

Il parlatorio è una breve stanza, dalle pareti nude, sbiancate di calcina al pari del soffitto, tenuto da travicelli sbilenchi; c'e a destra una povera immagine di Maria, che riscalda un po' l'ambiente, e nereggia, di rimpetto all'uscio, una grata, a grame fitte. Quel che più m'impressiona è il silenzio. Un silenzio pesante e vasto, come di casa abbandonata; ma in quel luogo diviene, vorrei dire, animato, perché prende lo spirito e lo risucchia verso epoche perdute, quando queste colline erano coperte di boschi e chiazzate di paludi, e sui poggi le croci vigilavano il lavoro di monaci solitari, e il tempo girava così lento da parere immobile. Il crepitio della pioggia contro i vetri della finestrella ritma quell'immobilità, e sveglia pensieri insoliti. d'una vita, che, pur essendo nel tempo' s'è già fissata nell'eternità...
Al di là dalla doppia grata, s'aprono, come due ali silenziose, due sportelli e dall'ombra emergono due figure bianche, che s’inchinano. Le prime trappiste che io abbia mai vedute.
Quelle voci fioriscono da un silenzio, che il freddo e la povertà fanno essenziale. Non un segno c’è che distragga 1o spirito: ci son solo quelle anime, dietro la doppia barriera, che le separa non tanto dalle persone, quanto da tutto il mondo, che, come un'orgia, fuori di qui, ci avviluppa.

Capisco meglio il perché della nudità della natura fuori e della povertà dentro: l'una e l'altra aiutano a mantenere la Trappa nella sua essenzialità, separata, quant'è possibile, dalle cose accessorie; sola, assoluta. Povertà, innocenza, unione con Dio, mercè il distacco da tutto; immersione nel silenzio come dentro lo stesso spirito di Dio; perché non ci sia che Dio. «Dio solo»: anelito della mistica. Queste donne - queste sorelle - si son raccolte qui, sepolte  nella pressoché universale dimenticanza, per non vivere che alla presenza e della presenza di Dio. - Dio solo.
Lavorano, nella casa e nella vigna, cinta di mura, guadagnando il pane (il pane e poco più) col sudore della fronte, anche se figli di principesse… Altri è con Dio a pezzi e bocconi: qui si è con Dio sempre, Dio solo: tutto il resto è ricondotto alla sua realtà di parvenza breve.
Sono qui. Per amor di  Dio e della sua Chiesa, offerte all'amore e alla passione di Cristo, per la gloria del suo nome e il beneficio delle anime da Lui riscattate. Non si distraggono, né perdono tempo; e versano, ogni momento, nello scrigno comune della Chiesa, lagrime e preghiere, veglie e digiuni, da cui sono beneficate creature lontane che non sapranno, forse, mai, in terra, da chi furono rialzate. Onde, le loro case sono come centri d'interminabile ricostruzione della sanità spirituale di tutti; e le loro persone sono levate, come vittime d’espiazione, tra la dimenticanza dei figli e la giustizia del Padre: incudini, come Caterina, loro sorella, su cui la collera divina si frange. Quanti pregiudizi sul loro conto! Ma no: esse non sono fuggite! Tutt'altro: si son ferma-te. Han preso stanza in mezzo agli altri uomini, mettendosi di fazione, per levare, quando più nere si fanno le ombre, la luce candida dell'amor di Dio: vergini savie che aspettano, con lampade pronte, lo Sposo, per la festa di tutti.
Esse adunano anime attorno a un Tabernacolo. Anzi sono Tabernacoli ardenti. come focolari che mai si spengono, in mezzo a famiglie verginali, che mai si allontanano. Fucine della carità; concentrazione della preghiera. E punti fermi.

Giordani tornò più volte a visitare la Trappa. Una volta vi portò con sé Chiara Lubich. Quel giorno – era il lunedì di Pentecoste del 1950 – la badessa annotò: «Ieri visita di Giordani con “sorella Chiara” e 2 “focolari”. E’ un soffio di primavera spirituale». 

domenica 22 giugno 2014

Coltivare il desiderio / 7


Una volta appagato il desiderio, occorre imparare a desiderare ancora. Il desiderio è la spinta del cuore ad andare sempre oltre, a non fermarsi alla soddisfazione raggiunta. Se Dio è infinito si può desiderarlo sempre di più, come afferma Bernardo di Chiaravalle: “La felicità di averlo trovato non estingue il desiderio santo, ma lo accresce. Forse che la pienezza del gaudio significa estinzione del desiderio? Anzi, è l’olio che lo alimenta, perché il desiderio è fiamma” (Commento al Cantico dei Cantici, 84, 1).
Il desiderio, e con esso l’amore, domanda di essere costantemente alimentato, come il fuoco, altrimenti è destinato ad affievolirsi e muore.
Diamo ancora la parola ad Agostino, l’uomo dell’inquietudine e del desiderio, l’uomo appassionato della ricerca e appagato dall’amore. Egli sa che occorre chiedere per avere e dal possesso scaturisce una nuova preghiera:
“Il tuo desiderio è la tua preghiera: se continuo è il tuo desiderio, continua è pure la tua preghiera. L'Apostolo infatti non a caso afferma: "Pregate incessantemente" (1 Ts 5,17). S'intende forse che dobbiamo stare continuamente in ginocchio o prostrati o con le mani levate per obbedire al comando di pregare incessantemente? Se intendiamo così il pregare, ritengo che non possiamo farlo senza interruzione. Ma v'è un'altra preghiera, quella interiore, che è senza interruzione, ed è il desiderio. Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato (che è il riposo in Dio), non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere di pregare, non cessare di desiderare. Il tuo desiderio è continuo, continua è la tua voce. Tacerai, se smetterai di amare. Tacquero coloro dei quali fu detto: "Per il dilagare dell'iniquità, l'amore di molti si raffredderà" (Mt 24,12). La freddezza dell'amore è il silenzio del cuore, l'ardore dell'amore è il grido del cuore. Se resta sempre vivo l'amore, tu gridi sempre; se gridi sempre, desideri sempre; se desideri, hai il pensiero volto alla pace”.
Anselmo d’Aosta inizia la sua grande opera rattizzando il fuoco del desiderio:
“Entra nell'intimo della tua anima, escludi tutto tranne Dio e quello che ti aiuta a cercarlo, e, richiusa la porta, cercalo. O mio cuore, di' ora con tutto tè stesso, di' ora a Dio: Cerco il tuo volto. ' II tuo volto, Signore, io cerco ' (Sal 26, 8).

Orsù dunque. Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti. Signore, se tu non sei qui, dove cercherò te assente? Se poi sei dappertutto, perché mai non ti vedo presente? Ma tu certo abiti in una luce inaccessibile. E dov'è la luce inaccessibile, o come mi accosterò a essa? Chi mi condurrà, chi mi guiderà a essa sì che in essa io possa vederti? Inoltre con quali segni, con quale volto ti cercherò? O Signore Dio mio, mai io ti vidi, non conosco il tuo volto.
Che cosa farà, o altissimo Signore, questo esule, che è così distante da te, ma che a te appartiene? Che cosa farà il tuo servo tormentato dall'amore per te e gettato lontano dal tuo volto? Anela a vederti e il tuo volto gli è troppo discosto. Desidera avvicinarti e la tua abitazione è inaccessibile. Brama trovarti e non conosce la tua dimora. Si impegna a cercarti e non conosce il tuo volto.
Signore, tu sei il mio Dio, tu sei il mio Signore e io non ti ho mai visto. Tu mi hai creato e ricreato, mi hai donato tutti i miei beni, e io ancora non ti conosco. Io sono stato creato per vederti e ancora non ho fatto ciò per cui sono stato creato.
Ma tu, Signore, fino a quando ti dimenticherai di noi, fino a quando distoglierai da noi il tuo sguardo? Quando ci guarderai e ci esaudirai? Quando illuminerai i nostri occhi e ci mostrerai la tua faccia? Quando ti restituirai a noi?
Guarda, Signore, esaudiscici, illuminaci, mostrati a noi. Ridonati a noi perché ne abbiamo bene: senza di te stiamo tanto male. Abbi pietà delle nostre fatiche, dei nostri sforzi verso di te: non valiamo nulla senza te.
Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, ne trovarti
Se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti” (Proslogion, 1).
Sì, la preghiera è forse il luogo segreto per tenere l’arco costantemente teso: “Chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto” (Lc 11, 1-13); “Mi cercherete e mi troverete, / perché mi cercherete con tutto il cuore” (Ger 29, 13).
Non a caso la Bibbia si chiude con un anelito struggente che si fa preghiera: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22, 20).

Termina qui la prima meditazione (Il desiderio di Dio: 1-7) che ho preparato per il ritiro di Bari.
Se c'è qualche suggerimento per migliorarla o completarla, è benvenuto.

sabato 21 giugno 2014

E quando manca il desiderio? / 6


Si tratti Erode o dei magi, degli scribi e farisei o di Maria di Magdala, ognuno di loro cerca Gesù, per il bene o per il male. Ognuno ha una motivazione diversa che lo guida, ma tutti desiderano ugualmente incontrarlo.
La tragedia è quando manca ogni interesse per Iddio. L’ateo non desidera perché crede di non credere; per lui Dio non esiste, ed è giunto a conclusione che il problema di Dio in falso problema. A volte lotta contro tale credenza spinto da una fede nella sua causa. Comunque non lo desidera e non lo cerca perché è convinto che non ci sia. Lo gnostico si pone il problema della conoscenza di Dio. A volte ne è appassionatamente alla ricerca, altre volte si arrende davanti alla conclusione che è impossibile conoscere la verità sulla sua esistenza.
Oggi queste due figure si fanno sempre più rare, per lasciare il posto da una totale indifferenza. Questa nostra età vede affievolirsi il desiderio di Dio, semplicemente non perché non crede alla sua esistenza o ne dubiti metodologicamente, ma per il semplice motivo che vede affievolirsi ogni tipo di desiderio. La sua fiamma si è smorzata e lentamente si è estinta. Oppure non si è mai accesa. Non ci è mai posti in cammino perché manca una meta. “Siamo nella vita arcieri che hanno un bersaglio”, scriveva Aristotele. In tante persone la freccia non scocca o perché manca il bersaglio, oppure perché l’arco si è allentato. È la tragedia di una società – almeno quella occidentale – sazia e quindi addormentata. Si contenta spesso di piccole mete, di un procedere senza un intento, di traguardi ravvicinati. Mancano gli obiettivi a lungo respiro, le grandi “aspirazioni”, perché manca l’aria. Dopo la morte di Dio e dunque morto anche il desiderio di Dio?
Ma manca davvero il desiderio? Oppure manca semplicemente la consapevolezza del desiderio. Forse non sa di desiderare. Ma quella inquietudine, quella insoddisfazione che comunque accompagna ogni presunta sazietà o ogni presunta mancanza di sogni, ogni rassegnazione pigra; o quella parvenza di pacifica indifferenza per ogni ideale, o quel disinteresse per le stelle e per quello che vi è sopra le stelle, sono come una depressione atmosferica che attira la pioggia, un vuoto che attende di essere colmato.

Da parte sua Dio non demorde: sta alla porta e bussa. Prima o poi l’incontro dovrà avvenire, almeno perché Dio non smette di desiderarlo, il suo arco non s’allenta e al momento opportuno la freccia scocca, con tanta più forza quanto più l’arco si è teso. L’ultimo appuntamento non si potrà mancare.
Presto o tardi. Si può sperare la medesima esperienza di sant’Agostino: “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace” (Confessioni, 10, 38).
Anche il desiderio è dono: “Nessuno può venire a me se il Padre che mi ha mandato non lo attira” (Gv 6, 44: 3, 27). E il dono non è pretesa, non può essere esigito, può essere atteso, impetrato.

Imprevisto è anche l’esito dell’attesa e della ricerca. C’è chi cerca per tutta la vita e non trova. C’è chi, come nella  parabola del mercante, cerca per tutta la vita e finalmente trova la perla preziosa. C’è chi non cerca affatto, come nella parabola del contadino che zappa nel campo, e inaspettatamente trova il tesoro.

venerdì 20 giugno 2014

Desideri della carne e desideri dello Spirito / 5


“Desiderio” da insoddisfazione, mancanza di appagamento, o appagamento soltanto temporaneo, che non compensa l’attesa e non riempie il cuore, deludendolo. Segno di assenza, di limite, di incompiutezza. Cosa non si farebbe per vederlo compiersi. È il motore che mette in moto la ricerca.
Spesso l’oggetto è sbagliato. È “la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita”, illusione di trovare la felicità in ciò che è effimero (1 Gv 2, 15). Paolo stila un triste catalogo di vizi, frutto di desideri che hanno perduto il grande orizzonte - “oltre le stelle” -, i “desideri della carne”, che fanno guerra allo spirito (Col 3, 5; 1 Tm 6, 9; Tt 3, 3).
Altre volte la ricerca è guidata da motivazioni sinceri, punta nella direzione giusta, ma che si rivelano inadeguate, non sufficienti per giungere alla pienezza dell’incontro.
“Tutti ti cercano!”, si affrettano a far sapere i discepoli al Maestro che, dopo una giornata piena di guarigioni, si è ritirato solo a pregare. La risposta è apparentemente incomprensibile: “Andiamocene” (Mc 1, 37-30). Non sarebbe stato il caso di approfittare della popolarità appena conquistata? Si sarà forse accorto che non cercano lui ma i suoi miracoli?
Dopo la moltiplicazione dei pani “la folla… si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù”. Gesù l’accoglie con freddezza, svelando la povertà del loro desiderio: “Voi mi cercate… perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (Gv 6, 24-26). Il desiderio è volto ai bisogni immediati, sintetizzati nel pane. Anche la Samaritana voleva l’acqua, così da non dover tornare al pozzo ogni giorno: una fatica in meno. Il desiderio si volge verso chi offre da mangiare, da bere e tutto quello che dà soddisfazione.

Gesù stesso ha insegnato a domandare il pane quotidiano, a bussare… Ma ha anche detto di non preoccuparci di cosa mangiare, di come vestire, cose di cui si preoccupano i pagani e a cui il Padre, nel suo amore premuroso, provvede da sé, prima ancora che gliele chiediamo. Si aspetterebbe piuttosto che ci mettessimo alla ricerca di Dio e del suo regno, non delle cose, che pure egli dona.
È vero che la ricerca, ogni ricerca, non è quasi mai puramente disinteressata. Siamo sempre mossi da una necessità. Il Vangelo testimonia il continuo accorrere di persone che non cercano Dio, ma la salute, la guarigione, la salvezza di un figlio. Lo fanno perché sanno, almeno per sentito dire, che Dio può appare ogni desiderio. Intuiscono la sua grandezza e la sua potenza.
La Cananea, donna straniera e pagana implora fino alla noia e segue il Signore incurante dei rimproveri dei discepoli perché vuole la salute della figlia ammalata. E finisce per gettarsi ai suoi piedi e prostrarsi in adorazione. Cercava qualcosa per sé e approda al riconoscimento di Dio.
Il figlio minore della parabola, che ha lasciato la casa del padre, vi torna spinto dalla fame (Lc 15, 11-32). Eppure trova l’abbraccio del padre arso dal desiderio di quel nuovo incontro.
Talvolta le motivazioni della ricerca possono arrivare ad una vera e propria perversione. I magi cercano Gesù per adorarlo e offrirgli i loro doni, Erode per ucciderlo. “Chi cercate?”, domanda Gesù nell’orto degli ulivi a quanti sono venuti con armi e bastoni. “Gesù il Nazareno”. Sì, cercano proprio lui, come tanti lungo i Vangeli, ma per ucciderlo.
Occorre riorientare il desiderio verso ciò che solo può veramente appagarlo. È questione di purezza di cuore, dell’occhio limpido, capace di intuire la bellezza e la verità. È il frutto della docilità allo Spirito, che parla al nostro spirito e ci suggerisce quello che va desiderato e quello che bandito dal desiderio: "Non seguite la carne nei suoi desideri” (Rom 13, 14); “camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda…” (Gal 5-16-17).


giovedì 19 giugno 2014

L’incontro, frutto di desiderio e di ricerca reciproci / 4




Cammino di Dio verso l’uomo, cammino dell’uomo verso Dio. Arriverà l’incontro?
In cammino verso Gerusalemme, Gesù giunge alle porte di Gerico. Zaccheo il pubblicano “cercava di vedere quale fosse Gesù” e per la sua bassa statura corre in avanti e, “per poterlo vedere”, sale su un sicomoro. Quando Gesù giunge sul luogo, alza lo sguardo e gli dice: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Egli scende “in fretta scese” e lo accoglie “pieno di gioia” (Lc 19, 1-10).
Un solo pensiero guida Zaccheo: il desiderio di vedere Gesù. È mosso dall’inquietudine, dal disagio interiore. Ha i soldi e si sente vuoto, non gli bastano a colmare il cuore, anzi lo inaridiscono. È insoddisfatto, ma non rassegnato. Ed eccolo sull’albero. È curiosità la sua o una segreta ricerca di felicità, il desiderio sincero di un incontro che cambi la vita? Zaccheo: un modello di ricerca, anche se espressa in maniera un po’ goffa e comica: un rispettabile funzionario dello stato arrampicato su un albero come un bambino.
È un caso che Gesù alzi lo sguardo? Non è un segno che anche lui è mosso dal desiderio di incontrarlo? Sembra essere passato da Gerico soltanto alla ricerca del peccatore che vuole liberare dalla zavorra dei beni materiali. È sua l’iniziativa dell’incontro. Alza lo sguardo e trova la pecorella smarrita, che rimprovera, ma prende sulle sue spalle,  il figlio prodigo che accoglie senza rinfacciargli il male fatto e senza chiedergli di restituire il mal torto. “Zaccheo, scendi subito”: vuole accorciare le distanze, eliminarle, ed ha fretta dell’incontro. “Perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Il cammino di ricerca s’arresta, il luogo d’incontro è stato trovato.
È una ricerca reciproca, per appagare il desiderio che spinge l’uno verso l’altro, per poter sedere a casa insieme, attorno alla stessa tavola. L’attesa alla porta – “sto alla porta e busso” – non è stata vana. Non è stata vana neppure l’attesa del Dio che passa.
L’incontro è frutto di un desiderio e di una ricerca reciproci, come sa bene Paolo. Si lancia verso Cristo perché ha scoperto che Cristo per primo s’è slanciato verso di Lui: “mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo… dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3, 12-14).

mercoledì 18 giugno 2014

Connessi e disconnessi

Sono presente a un importante incontro con un gruppo ristretto e qualificato. Suona un cellulare e la persona si alza piedi e esce per rispondere. È subito connesso con qualcuno lontano. Pensavo fosse connesso con noi in sala. Un altro controlla la posta sullo smartphone, un altro ancora chatta. Che bello, siamo finalmente tutti permanente connessi. Possiamo comunicare con chiunque, in ogni parte del mondo, in ogni momento. Non ci si sconnette mai. Siamo connessi sempre con persone o con fatti lontani, reali o fantastici (come i games) che essi siano. Per essere connessi con i lontani occorre naturalmente essere sconnessi con i vicini, anche se a volta si tenta disperatamente la bilocazione, fenomeno mistico riservato a pochi eletti (i quali tra l’altro, pur essendo contemporaneamente in due luoghi diversi, agiscono soltanto in uno di essi!).
È normale per tanti chattare fino alle tre di notte. I risultati si vedono al mattino sul lavoro o a scuola: la sconnessione dopo la connessione continua; sconnessione proprio nel senso di mancanza di nesso: fuori di testa, fino a forme di dipendenza peggiori dell’alcool e della droga. Uno strumento nato per favorire i rapporti finisce col deteriorarli e creare il vuoto attorno.
Una forma di connessione permanente esisteva già prima di internet. I mistici e i maestri spirituali la chiamavano: “stare alla presenza di Dio”. Non avveniva grazie a strumenti tecnici sofisticati, ma a un esercizio di raccoglimento, di unificazione interiore per liberare dalla schiavitù delle mille cose che tirano da ogni parte e lacerano l’unità interiore. Ci si sentiva alla sua presenza e lo si sentiva presente. Avveniva anche un invio continuo di sms, che allora si chiamavano “giaculatorie”, letteralmente “frecciate” che partivano dal cuore e dicevano a Dio, con la fantasia dell’amore, le parole più belle, le confidenze più intime. Si giungeva perfino ad chattare, in un dialogo costante con Lui.
Il risultato non era l’estraneazione dal reale, ma la capacità di svolgere il proprio lavoro, di rapportarsi con gli altri, di compiere ogni azione come fosse la cosa importante, con una presenza di sé che sapeva gustare la vita e che a tutto dava valore. È il tipo di connessione permanente che vorrei raggiungere.

martedì 17 giugno 2014

C’è sempre un arcobaleno


Dopo ogni nubifragio (oggi si dice “bomba d’acqua”) appare l’arcobaleno.
È apparso anche oggi, sul cielo di san Pietro. Eccolo nella foto presa da casa.
Ben Sirac ne era incantato: “Osserva l'arcobaleno e benedici colui che l'ha fatto, è bellissimo nel suo splendore. Avvolge il cielo con un cerchio di gloria, l'hanno teso le mani dell'Altissimo” (43, 11-12).
Ad Ezechiele Dio apparve bello come un arcobaleno: il suo aspetto “era simile a quello dell'arcobaleno nelle nubi in un giorno di pioggia” (1, 28).
Mentre Giovanni, nell’Apocalisse lo vede avvolgere Dio stesso: “Colui che stava seduto era simile nell'aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono” (4, 3).
Non c’è quadro più bello. È stato dipinto dal grande Artista. L’ha posto in cielo per ricordarsi della promessa fatta, di non distruggere l’umanità: è il segno della sua misericordia: “Il mio arco pongo sulle nubi  ed esso sarà il segno dell'alleanza tra me e la terra. Quando radunerò le nubi sulla terra e apparirà l'arco sulle nubi ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi, tra ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne. L'arco sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l'alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra” (Gen 8, 13-16).
L’ultima parola è dell’arcobaleno.

lunedì 16 giugno 2014

Il desiderio di Dio / 3



Eccoci così in cammino, alla ricerca del Dio perduto, spinti dalla nostalgia della perdita e dal desiderio di trovarlo.
Il tema del viaggio attraversa ogni letteratura di ogni secolo e di ogni latitudine, tra ritorno ad una patria perduta e ricerca di mondi nuovi. Ricerca del Dio da cui veniamo e tensione verso un Dio che viene ed è sempre davanti a noi.
Si mette in cammino Abramo, Isacco, Giacobbe. Si mette in cammino tutto un popolo verso la terra promessa. Si mette in cammino il Figlio di Dio verso Gerusalemme.
Il cammino diventa parabola del desiderio di Dio e della tensione dell’incontro con lui. Il Cantico dei cantici ne è divenuto, per ogni persona assetata di Dio, il luogo letterario per eccellenza, da leggere con assiduità per conoscere le tappe dell’avvicinamento, le difficoltà che si incontrano lungo la strada, le angosce dell’assenza, la gioia della presenza, dell’incontro, del possesso. Da Origene a Teodoreto di Cirro a Gregorio Magno, da Guglielmo di Saint-Thierry a Gilberto d’Oiland e Giovanni della croce Il Cantico costituisce la mappa fondamentale per addentrarsi nel rapporto con Dio. Una mappa che presenta tre grandi momenti del dramma della ricerca dell’amore: la sua nascita, la perdita, il ritrovamento.
Una volta sperimentato l’amore, arriva il momento della sua eclissi: Dio sparisce dall’orizzonte. Egli sfugge proprio quando si pensa di possederlo, quasi a ricordandoci che egli rimane sempre al di dà, inafferrabile. Bernardo di Chiaravalle confida la sua esperienza dolorosa: “Mi succede a volte che il verbo mi visiti durante la lectio divina, ecco lo sento, arriva, quasi mi ferisce il cuore. Ma appena cerco di dire: «Ma tu chi sei?» se ne è già andato”. La separazione e il distacco sono un dono per la sposa che così acuisce la nostalgia e il desiderio di un’unione ancora più profonda. Ella si pone dunque in cammino, per le strade della città, chiede a tutti quelli che incontra le tracce dell’amato, fin quando, improvviso, come in ogni dramma che si rispetti, il ritrovamento, sancito da un sigillo:  “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, / come sigillo sul tuo braccio”. L’amore si mostra “forte come la morte”, “tenace come il regno dei morti”, “una fiamma divina” (8, 6).
La persona che meglio impersona la sposa del Cantico è certamente Maria. Non si dà pace fin quando non trova Gesù: “Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo” (Lc 2, 48).
Giovanni ci dona il quadro di una ricerca più serena, ma non peno intensa e appassionata. Giovanni il Battista, “fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì - che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. (1, 5-39).

Andrea e l’altro discepolo innominato, sono mossi dal desiderio di scoprire il mistero dell’Agnello di Dio e si pongono in cammino, fino a quando provocati dalla richiesta del Maestro – “Che cosa cercate?” –, domandano apertamente capace di guidarli verso una coscienza sempre più esplicita della motivazione che li ha messi sulle sue tracce: “Rabbì, dove dimori?”. Non ti chiedono semplicemente “dove abiti”, ma dove “dimori”, con quel ricco vocabolo che torna lungo tutto il Vangelo di Giovanni: qual è la tua vita, il tuo modo di esistere, il mistero della tua persona? Dietro l’invito del Maestro – “Venite e vedrete” – la scoperta della sua identità, già iniziata con l’indicazione del Battista, comincia a diventare un'espe­rienza concreta in un crescendo progressivo affidato a tre verbi: andarono, videro, si fermarono.
È il tracciato dell’itinerario della ricerca, fino all’approdo certo. La sequela (andarono, un verbo che indica adesione a Cristo, percorrendo il suo stesso cammino) porta ad accertarsi di persona: videro, un verbo carico di significato in Giovanni: è l’illuminazione. Si tratta di un’autentica esperienza, secondo il significato del verbo latino ex-pèrior, che letteralmente significa accertarsi recandosi sul posto. Che non si tratti di un’esperienza superficiale è attestato dal terzo verbo: si fermarono, a indicare l’instaurarsi di una relazione stabile, una comunanza di vita e di destino, una profonda comunione. Il desiderio è appagato. Verrà anche per loro, come per la sposa del Cantico, come per Maria, la perdita del Maestro nel dramma della passione e morte, ma ancora una volta non farà altro che mettere nuovamente in moto il desiderio e la ricerca, espressa in maniera plastica dalla corsa del discepolo amato verso la tomba vuota (cf. Gv 20, 4). È il tracciato d’ogni ricerca, d’ogni cammino, mosso del desiderio dell’incontro.



domenica 15 giugno 2014

Il desiderio di Dio / 2


Mentre si metteva in cammino verso di noi, Dio poneva nel cuore umano la nostalgia del paradiso perduto, e più ancora la nostalgia di lui stesso. Nella sua semantica la parola nostalgia richiama proprio il “paese” perduto e le persone legate a quel luogo lontano, a cui vorremmo tornare e con cui vorremmo di nuovo incontrarci (nòstos = tornare a casa). È un rimpianto per una lontananza che fa male, che addolora (àlgos) e che si vorrebbe colmare per rivivere la gioia di prima. È il desiderio di tornare in patria, a casa, nei luoghi cari dell’infanzia. È il paradiso, e Dio che vi inabita, il luogo dell’infanzia felice dell’umanità, la patria, la casa dove vorremmo tornare.
Desiderio di Dio acquista adesso una connotazione oggettiva: siamo noi a desiderarlo e a metterci in cammino per incontrarlo.
I salmi sono tra i poemi che più e meglio interpretano questo profondo anelito umano: “Il mio cuore ripete il tuo invito: «Cercate il mio volto!». / Il tuo volto, Signore, io cerco. / Non nascondermi il tuo volto, / non respingere con ira il tuo servo... / Mostrami, Signore, la tua via, / guidami sul retto cammino…” (27, 8-9.11).
Il tema della ricerca prosegue con parole appassionate: “O Dio, tu sei il mio Dio, / dall'aurora io ti cerco, / di te ha sete l'anima mia, / desidera te la mia carne, / in terra arida, assetata, senz'acqua” (63, 2). 
Non è un Dio anonimo quello che vorremmo raggiungere, ma una persona viva, con la quale avviare un rapporto intenso e diretto: è il “mio Dio”. Sembra di udire l’eco della sposa del Cantico dei Cantici: “Il mio amato è mio e io sono sua” (2, 16). È una ricerca talmente intensa e appassionata, che inizia fin di primo mattino: dall’aurora io ti cerco” (Isaia si pone in cammino già durante la notte: “Di notte anela a te l’anima mia, / al mattino dentro di me il mio spirito ti cerca”, 26, 7). Non c’è tempo da perdere, è la prima e la più urgente delle cose da fare, è questione di vita o di morte, come la ricerca dell’acqua da parte di un uomo sperduto nel deserto: “ha sete l'anima mia”.
La sete, bisogno primordiale ed elementare, diventa metafora eloquente e ricorrente: “Come la cerva anela / ai corsi d’acqua, / così l’anima mia anela / a te, o Dio. / L’anima mia ha sete di Dio, / del Dio vivente: / quando verrò e vedrò / il volto di Dio?” (42, 2-3). Nella lingua originale ebraica “amag”, qui tradotto con “anela”, esprime un sentimento ben più forte. È il grido, il lamento lacerante che nasce da una arsura che brucia e consuma. La sete di Dio è ben più ardente di quella di un uomo o di una cerva sperduti nel deserto: è l’anelito all’incontro faccia a faccia: “quando verrò e vedrò / il volto di Dio?”.
È l’arsura provata da tutti i mistici. “Soffro, bricio di notte e di giorni; / di te ho bisogno, solo di Dio”, mormora Yunus Emre, poeta musulmano vissuto tra il 1250 e il 1320; “e più si avvicina il giorno, / più aumenta la mia fiamma, il desiderio di te”. Anche chi si professa non credente percepisce talvolta un medesimo anelito, come confessa il poeta spagnolo José Luís Hidgo nella prima metà del Novecento : “Io non so deve sei, però ti cerco, / nella notte ti cerco e sogno l’anima” (I morti, 1947).