giovedì 3 luglio 2014

La fede di Tommaso e di apa Pafnunzio


Era la festa di Tommaso, l’apostolo incredulo. Ma anche il più generoso, pronto a condividere fino in fondo la vita del Maestro: «Andiamo anche noi a morire con lui»; desideroso di seguirlo in adesione sincera, al punto da non esitare a chiede quale fosse la via: «Non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». Fu quest’ultima ingenua domanda che consentì al Signore la più alta manifestazione: «Io sono la via, la verità, la vita».
Eppure sulla memoria di Tommaso rimaneva quella macchia, che lo segnerà per i secoli: Tommaso l’incredulo. Ma il Maestro non si era rivolto a tutti i suoi apostoli rimproverandoli per essere uomini di poca fede? Apa Pafnunzio si domandò se non sarebbe stato più aderente alla verità chiamarlo: Tommaso dalla grande fede.
Chi altro mai, in tutta la Scrittura Santa, aveva espresso una professione di fede così limpida e assoluta? «Il mio Signore, il mio Dio». Proprio con l’articolo determinativo, quello che individua chiaramente l’oggetto! In nessun altro si sarebbe mai potuto credere se non in Gesù Cristo, l’unico Signore e l’unico Dio. La via, la verità, la vita gli era lì davanti. Non vi era altra via, altra verità, altra vita se non quella che si identificava con Gesù di Nazareth.
Non aveva bisogno di proclamare: “credo”, come il padre del ragazzo indemoniato o come Marta. Gli bastò arrendersi all’evidenza: la presenza del Risorto. Gli bastò chiamarlo per nome, quello vero, che ne affermava l’identità più profonda: il Signore, il Dio.
Ogni volta che ripeteva le parole di Tommaso, apa Pafnunzio si estasiava, rimaneva rapito in contemplazione della verità fatta persona: Gesù, il Signore, il Dio.
Il Signore, il Dio era totalizzante e avvolgente, al punto che ad apa Pafnunzio bastava pronunciarne il Nome santo per sentirsi saziato; la sua preghiera non aveva bisogno di procedere oltre. Come Tommaso, neppure lui proclamava: “credo”, tanto chiara era l’evidenza.

Lentamente assaporava la dolcezza del “mio”. Nessun altra cosa o persona avrebbe mai potuto essere veramente suo come lo era il suo Signore. L’Unico. A nessun altro poteva affidare il proprio cuore. Come avrebbe potuto dire “mio” all’effimero, che oggi è e domani scompare? Una cosa sola sarebbe restata, sarebbe stata realmente, sempre. A quella sola poteva attaccare il cuore. Quella sola era degna di essere posseduta – o da essa sola era degno di essere posseduto.
La fede di apa Pafnunzio, al pari di quella di Tommaso, non era distaccata affermazione di una verità distante e freddamente oggettiva, ma adesione totale a una verità che penetrava l’anima fino a diventare esperienza personale. Il Signore e il Dio si era fatto vicino, era entrato nella sua vita, era diventato sé – o era lui che stava diventando uno con il Signore e il Dio? Il Mistero si svelava e diventava suo – o era lui che stava diventando il Mistero?
Non aveva bisogno di toccare, come forse neppure Tommaso aveva toccato. Gli bastava avere davanti il suo Signore e le sue piaghe, segni di un amore concreto e totale.
Apa Pafnunzio passò le ore della sera davanti all’icona del suo Signore, con accanto Tommaso, e insieme ripetevano: «Il mio Signore e il mio Dio»


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