giovedì 28 agosto 2014

Gli angeli di Pietro Cavallini volano ancora

Clericus vagans, oggi mi fermo in un luogo davanti a cui passo da 45 anni e nel quale mai ho messo piede. Anche qui, come in ogni angolo di Roma, è arrivata una ragazza da fuori e ha dato inizio a una nuova avventura. Era il 4 settembre 1891, la ragazza, Antonia Lalìa, veniva dalla Sicilia e fondò una congregazione di Domenicane che ora abitano qui e che da qui partono per tutta l’America Latina e la Russia. Ma prima, nel 1219, c’era già stato san Domenico con i suoi frati e due anni dopo, quando si trasferì sull’Aventino, qui fondò il monastero per le sue Domenicane.
San Sisto Vecchio, che storia straordinaria, millenaria, iniziata nel IV secolo e proseguita tra le più svariate vicende, fino ad essere confiscato dallo Stato italiano per farne deposito di materiale e di carri funebri. Ma prima ancora doveva esserci lì una villa romana, a giudicare dai mosaici ritrovati. Scrigni di capolavori d’arte: architetture romaniche, chiostri e torrette medievali, affreschi…

Mi accoglie una giovane suora guatemalteca, qui a Roma da appena cinque anni e già esperta guida storico artistica.
Iniziamo dal luogo dove un tempo sorgeva la sala capitolare, oggi ricostruita e trasformata in cappella. Qui Domenico si è permesso il lusso di operare la risurrezione di un bambino, poi di un giovane e di un adulto. Passiamo al grande refettorio dove mangiano ancora le suore. Chissà com’era nel 1200 quando avvenne il miracolo dei pani? E poi il chiostro con le storie di san Domenico dipinte in una trentina di lunette. A mano a mano che la suora me le illustra, una per una, scorre la vita del santo bella e universale come soltanto quelle dei santi sanno esserle
Infine la basilica. Quella antica a tre navate è completamente interrata, emergono appena, a fior di pavimento, i capitelli che sorreggevano le arcate delle tre navate. L’attuale è in restauro e quindi inaccessibile a causa dell’arresto dei lavori per mancanza di fondi, oltre che per le solite imbrigliature burocratiche. Trovo tuttavia il modo di accedere al capolavoro qui celato: gli affreschi due-trecenteschi di Pietro Cavallini nascosti tra vecchie intercapedini… Gli angeli sono inconfondibili, gli stessi, anche se in dimensioni più piccole, di quelli dipinti nella basilica di santa Cecilia. Chissà perché gli piaceva tanto dipingere gli angeli. Forse perché lo portavano in un altro mondo, più vero. Anche producono in me lo stesso effetto. Cavallini ne sarebbe stato contento.



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