martedì 31 marzo 2015

Mi sono fatto tutto a tutti


“Mi sono fatto tutto a tutti” (1 Cor 9, 22)
 Nella prima lettera alla comunità di Corinto, da cui è tratta la parola di vita di questo mese, Paolo deve difendersi dalla scarsa considerazione che alcuni cristiani mostrano nei suoi confronti. Essi mettevano in dubbio o negavano la sua identità di apostolo. Dopo averne rivendicato a pieno titolo questa qualifica per aver “veduto Gesù Cristo” (cf 9, 1), Paolo spiega il perché del suo comportamento umile e dimesso, al punto da rinunciare ad ogni tipo di compenso per il suo lavoro. Pur potendo far valere l’autorità e i diritti dell’apostolo, preferisce farsi “servo di tutti”. È questa la sua strategia evangelica.
Si fa solidale con ogni categoria di persona, fino a diventare uno di loro, con lo scopo di portarvi la novità del Vangelo. Per cinque volte ripete “mi sono fatto” uno con l’altro: con i Giudei, per amore loro, si sottopone alla legge mosaica, pur ritenendosi non più vincolato da essa; con i non Giudei, che non seguono la legge di Mosè, anche lui vive come fosse senza la legge mosaica, mentre invece ha una legge esigente, Gesù stesso; con quelli che venivano definiti “deboli” – probabilmente cristiani scrupolosi, che si ponevano il problema se mangiare o meno le carni immolate agli idoli –, si fa anche lui debole, pur essendo “forte” e provando una grande libertà. In una parola, si fa “tutto a tutti”.
Ogni volta ripete che agisce così per “guadagnare” ognuno a Cristo, per “salvare” ad ogni costo almeno qualcuno. Non si illude, non ha aspettative trionfaliste, sa bene che soltanto alcuni risponderanno al suo amore, nondimeno egli ama tutti e si mette al servizio di tutti secondo l’esempio del Signore, venuto «per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20, 28). Chi più di Gesù Cristo si è fatto uno con noi? Egli che era Dio, «annientò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2, 7).


“Mi sono fatto tutto a tutti”
 Chiara Lubich ha fatto di questa parola uno dei capisaldi della sua “arte di amare”, sintetizzata nell’espressione “farsi uno”. Vi ha visto un’espressione della “diplomazia” della carità. «Quando uno piange – ha lasciato scritto –, dobbiamo piangere con lui. E se ride, godere con lui. E così è divisa la croce e portata da molte spalle, e moltiplicata la gioia e partecipata da molti cuori. […] Farsi uno col prossimo per amor di Gesù, coll’amore di Gesù, finché il prossimo, dolcemente ferito dall’amore di Dio in noi, vorrà farsi uno con noi, in un reciproco scambio di aiuti, di ideali, di progetti, di affetti. […] Questa è la diplomazia della carità, che ha della diplomazia ordinaria molte espressioni e manifestazioni, per cui dice non tutto quello che potrebbe dire, perché al fratello non piacerebbe e non sarebbe gradito a Dio; sa attendere, sa parlare, arrivare allo scopo. Divina diplomazia del Verbo che si fa carne per divinizzarci»[1].
Con fine pedagogia Chiara individua anche gli ostacoli quotidiani che si frappongono al “farsi uno”: «A volte sono le distrazioni, altre volte il cattivo desiderio di dire precipitosamente la nostra idea, di dare inopportunamente il nostro consiglio. In altre occasioni siamo poco disposti a farci uno col prossimo perché riteniamo che non comprenda il nostro amore, o siamo frenati da altri giudizi al suo riguardo. In certi casi siamo impediti da un recondito interesse di conquistarlo alla nostra causa». Per questo «è proprio necessario tagliare o posporre tutto quanto riempie la nostra mente e il nostro cuore per farci uno con gli altri»[2]. È dunque un amore continuo e infaticabile, perseverante e disinteressato, che si affida a sua volta all’amore più grande e potente di Dio.
Sono indicazioni preziose, che potranno aiutarci a vivere la parola di vita in questo mese, a mettersi in sincero ascolto dell’altro, a capirlo dal di dentro, immedesimandosi in ciò che vive e che prova, condividendone preoccupazioni e gioie:

“Mi sono fatto tutto a tutti”
 Non possiamo interpretare questo invito evangelico come una richiesta a rinunciare alle proprie convinzioni, quasi approvassimo in maniera acritica qualunque modo di agire dell’altro o non avessimo una nostra proposta di vita o un nostro pensiero. Se si è amato fino al punto da diventare l’altro, e se quanto si condivide è stato un dono d’amore ed ha creato un rapporto sincero, si può e si deve esprimere la propria idea, anche se forse potrà far male, rimanendo però sempre in atteggiamento di più profondo amore. Farsi uno non è segno di debolezza, non è ricerca di una convivenza tranquilla e pacifica, ma espressione di una persona libera che si pone a servizio; richiede coraggio e determinazione.
È importante anche avere presente lo scopo del farsi uno.
La frase di Paolo che vivremo questo mese continua, come abbiamo precedentemente accennato, con l’espressione: «… per salvare da ogni costo qualcuno». Paolo giustifica il suo farsi tutto con il desiderio di portare alla salvezza. È una via per entrare nell’altro, per farvi emergere in pienezza il bene e la verità che già vi abitano, per bruciare eventuali errori e per deporvi il germe del Vangelo. È un compito che per l’Apostolo non conosce né limiti né scuse, al quale egli non può venir meno perché glielo ha affidato Dio stesso, e deve compierlo “ad ogni costo”, con quella inventiva di cui soltanto l’amore è capace.
È questa intenzionalità a dare la motivazione ultima al nostro “farsi uno”. Anche la politica e il commercio sono interessati a farsi vicini alle persone, ad entrare nel loro pensiero, a coglierne le esigenze e i bisogni, ma vi è sempre la ricerca di un tornaconto. Invece «la diplomazia divina – direbbe ancora Chiara – ha questo di grande e di suo, forse di solo suo: che è mossa dal bene dell’altro ed è priva quindi d’ogni ombra d’egoismo»[3].
“Farsi uno” dunque, per aiutare tutti nella crescita dell’amore e così contribuire a realizzare la fraternità universale, il sogno di Dio sull’umanità, il motivo per il quale Gesù ha dato la vita.

 [1] “Diplomazia”, in Scritti spirituali/1, Città Nuova, Roma 20035, p. 88-89.
[2] La vita,  un viaggio, Città Nuova, Roma 19944, p. 63.
[3] “Diplomazia”, cit., p. 89.

lunedì 30 marzo 2015

Teotihuacan: sacrifici degli Aztechi e sacrificio di Cristo


Mi scrive un amico dal sito archeologico dell'antica città di Teotihuacan, con le sue piramidi dedicate al Sole e alla Luna: “Un complesso impressionante che risale ai primi secoli dopo Cristo e che è stato alla radice delle culture successive degli Aztechi, dei Maya, ecc. Una cosa che fa impressione è che su queste piramidi messicane si facevano sacrifici umani e che in particolare si offriva agli dei il cuore. Morire così era una cosa molto onorevole e aveva un preciso scopo: convincere gli dei a far sorgere ancora il Sole, la Luce. A prima vista, una cosa scioccante. Ma guardato più dall’Uno, forse un’arcana intuizione di realtà profonde: non è forse vero che Dio non vuole da noi sacrifici di animali o altre cose, ma proprio il cuore? E che ogni Luce ha sempre chi la paga? Pensando poi alla realtà cristiana, che non è tanto ascesa a Dio quanto piuttosto discesa di Lui, il pensiero è andato oltre: la verità è che il Padre in Gesù ci ha donato il suo “cuore", il Verbo, e questo cuore, offerto una volta per tutte sull’“altare" del mondo, ogni giorno ci è donato nell’Eucaristia!”


Anche a me avevano fatto grande impressione quei luoghi. Li ho visitati proprio durante la Settimana Santa e anche a me avevano parlato in questo senso.
Leggo dal diario di allora: “21 marzo, solstizio di primavera. Gruppi di persone le più varie, rigorosamente vestite di bianco, le braccia alzate, il volto rivolto al cielo, ne raccolgono i raggi per lasciarsi inondare dall’energia vitale che emana dall’astro. Raccolti davanti alle antiche steli e agli altari, o più semplicemente in radure ai piedi della piramide, cantano, danzano a passi lenti, pregano evocando i padri e proclamandosi fedeli alle tradizioni da loro tramandate.
Sono canti pacati e lenti, ma dietro mi pare quasi d’udire le grida delle migliaia e migliaia di uomini donne e bambini che qui, come sulle altre alture, venivano immolati a divinità assetate di sangue: la morte era la via che assicurava la rinascita e la continuità della vita. Non posso non ricordare che proprio oggi, solstizio di primavera, è il Venerdì santo, e penso al sacrificio di Gesù, un Dio che non esige vittime e sangue umano, ma che si offre lui stesso vittima e sparge lui stesso il proprio sangue. Il suo sacrificio ha abolito ogni altro sacrificio, la sua morte è la vera via alla vita più piena: ci dona la sua stessa vita divina”.


domenica 29 marzo 2015

Vangelo






Il Vangelo in mano: credo sia il modo più intelligente per seguire il cammino di Gesù nella settimana santa.

Avevo poco più di 13 anni quando mio padre me lo regalò:
“Per esserti di pace e di ristoro alla tua formazione evangelica”.
Era il 6 gennaio 1962.
Da allora quella copia del Vangelo mi ha sempre seguito e il Vangelo mi ha sempre guidato.


sabato 28 marzo 2015

Perché Gesù non scende dalla croce?


Quante volte, davanti a una situazione difficile, a un dramma personale e familiare, a un qualsiasi male sociale, ci aspettiamo una soluzione positiva, che invece non viene. Si prega, si spera in un miracolo, e non accade niente. La malvagità e l’ingiustizia sembrano avere il sopravvento. Ai cattivi va sempre tutto bene, mentre i buoni rimangono nella sofferenza.
Anche a Gesù è capitato così. Fino all’ultimo qualcuno ha atte­so un intervento divino, un gesto straordinario, qualcosa che avrebbe risolto positivamente il dramma così assurdo che si sta­va consumando sul Calvario. Invece niente: lo hanno inchioda­to, ha gridato e nessuno è venuto in tuo aiuto, nessun miracolo, è morto. E di quale atroce morte. E quanto strazian­te quel grido senza risposta alcuna.
«Non scendi dalla croce? – ti dicono uomini crudeli – Allora non ti crediamo». Ciò che per essi è causa di incredulità, per il centurione diventa invece motivo di fede: «Davvero quest’uo­mo era Figlio di Dio!». È l’ambivalenza davanti alla sua morte. Può essere letta come un fallimento, una maledizione, un’ingiu­stizia, l’assenza di Dio che lascia andare le cose per il loro verso, senza intervenire. Oppure come il più alto atto d’amore.


Anche a noi il dolore e le contrarietà possono apparire ambiva­lenti. Quante volte si arriva a perdere la fiducia in Dio, a non credere, perché lascia che le cose vadano come non vorremmo. Anche noi, nei modi più vari, chiediamo di appianare quella contesa, di recuperare quella perso­na cara che si sta perdendo, di porre termine a un’ingiustizia, di guarire chi sta morendo… Perché non fa nulla, perché non interviene, se è l’Onnipotente? “Perché non scendi dalla croce?” E forse perdiamo la fede.
Oppure possiamo reagire come il centurione: credere che Dio è lì, misteriosamente ma realmente presente in quel dolore. Sulla croce si è fatto malattia, ingiustizia, sofferenza, tradimento, peccato…, tutte realtà no­stre che, in quanto Dio, non gli appartenevano e di cui si è co­munque appropriato, prendendole su di sé  per toglierle a noi. È stato il più alto gesto d’amore. Non si è visto nulla in quel momento, soltanto silenzio e morte, ma il suo gesto d’amore era già risurrezione.
Ogni realtà negativa, da quando Gesù l’ha presa su di te, si rivela sacramento della sua presenza: vi è entrato, l’ha assunta, si è identificato con essa. Lo crediamo, anche quando non vediamo il miracolo. Sappiamo che Dio è lì presente. Non amiamo il dolore, ma Dio che si è fatto dolore, pre­sente in ogni dolore. Si associa a sé per vivere con lui ogni tratto negativo, in noi e attorno a noi, con l’amore che tutto redime, primizia di risurrezione.


venerdì 27 marzo 2015

Gli Oblati al papa non dicono mai no

Sono 30 gli studenti che da un mese al Claretianum seguono questo nuovo corso accademico che mi sono inventato sul carisma oblato: "Fonti e studi per una ricerca sul carisma. Metodologia. Applicazione alla Congregazione dei Missionari OMI".

La vita precede sempre la riflessione e gli Oblati, lungo la loro storia, hanno pensato soprattutto a vivere, a svolgere il proprio lavoro missionario con dedizione e coraggio, più preoccupati di generare la vita attorno a loro che di riflettere sulla propria vita. Anche Zago, nel lontano 1970 si era chiesto: “Dobbiamo identificarci in formule, in enunciati propagandistici, oppure nella vita e nell’orientamento pastorale realizzato?”
Théodore Labouré
Il primato della vita non impedisce che si possa riflettere sul vissuto, anzi, una tale riflessione è necessaria. È forte l’esigenza di una comprensione sempre più profonda degli elementi che dirigono il vissuto, in ordine ad una crescita armoniosa e progressiva e all’esigenza di sempre nuove scelte che si impongono nel cammino della storia e nell’impatto con nuove culture.
Trovo questa ricerca appassionante.

Tra i molti riferimenti a cui ho accennato nella lezione di oggi ha impressionato una lettera del superiore generale Théodore Labouré che, nel 1932, ricordava: “È perché gli Oblati si sono sempre mostrati fedeli alla loro vocazione che il Santo Padre ha per loro la stima che sapete. Quante volte, in pubblico come in privato, ha lodato lo zelo dei nostri padri e il loro spirito di povertà, di abnegazione, di dedizione, di sacrificio, virtù che hanno fatto di loro gli «specialisti delle missioni difficili»!... Non dimentichiamo quello che ha detto il Papa a un rappresentante di un’altra Congregazione molto meritevole il quale si era visto costretto, per mancanza di personale, a rifiutare delle missioni tra i poveri: «Mi sono già rivolto a diversi altri; anche voi mi dite di no; perciò mi resta una sola possibilità, quella di rivolgermi ai miei cari Oblati. Loro non dicono mai no!»".


giovedì 26 marzo 2015

Condivisione



Conosciamo, nella traduzione italiana del 1300 di Domenico Cavalca, la storia dei “sette probatissimi monaci”, quelli di apa Pafnunzio, per intenderci: «Sette probatissimi monaci abitavano in quell’ermo che confina co’ Saraceni e divisi per sé in una cella, ma uniti insieme per vincolo d’amore... Questi benedetti stando in solitudine si convenivano insieme, cioè lo sabato in sulla nona e ciascuno procurava alcuna coserella da mangiare, chi noci, e chi fichi, e chi datteri, e chi erbe, e chi pastinache, e così insieme facevano carità». Che sorpresa vedere questi primi monaci del deserto egiziano, che immaginiamo sempre immaginato rozzi e irsuti, scontrosi e solitari, e che si ritrovano insieme per far merenda, e con ciò stesso, sorprendentemente, fare carità, ossia vivere la semplice e concreta comunione fraterna.

Noi continuiamo quella tradizione secolare. Cambia il giorno e l’ora, ci riuniamo il lunedì sera dopo cena, ma l’intento è sempre lo stesso, anche se lo diciamo in inglese (che volete, siamo una comunità internazionale): faith sharing, che è sempre comunione di esperienze. Anche per noi, come per gli antichi monaci del deserto, l'incontro si conclude non proprio con erbe e pastinache, ma con “quello che passa il convento”: condivisione di beni spirituali e materiali. Questa volta sono io a portare la “coserella”: il filone candito del rinomato biscottificio Mattei di Prato… E così insieme facevano carità.


mercoledì 25 marzo 2015

25 marzo, un sì che avvolge inizio e fine del mondo

25 marzo: primo giorno della creazione
25 marzo: giorno del primo peccato di Adamo
25 giorno: giorno dell’incarnazione del Figlio di Dio
25 marzo: giorno della crocifissione di Cristo
25 marzo: primo giorno dell’anno nel calendario fiorentino e pisano
25 marzo 1300: giorno nel quale Dante si smarrisce nella selva oscura e inizia il suo grande viaggio
25 marzo: giorno della fine del mondo

Questi i calcoli secondo la tradizione ebraica e cristiana.
Quanti “Sì” per un unico “no”: il “sì” di Dio alla sua creazione, il “sì” di Maria e di Gesù, il “sì” della conversione di Dante…
Al centro il "sì" pronunciato da Maria e, in sincronia, da Gesù che, rivolgendosi al Padre, afferma di venire nel mondo “per compiere la tua volontà”.
Un sì che dà senso all’inizio della storia (25 marzo!) e alla sua fine (25 marzo!).
Un sì nel quale è possibile anche il sì della conversione di Dante, simbolo dell’inizio del cammino di conversione di ogni uomo.
Grazie a quel sì si apre anche il paradiso per Disma che, con suo sorpresa e gioia, si trova ad essere il primo ad entrarvi. Oggi è infatti la festa di Disma, anzi, san Disma, come lo chiama lo scritto apocrifo degli “Atti di Pilato”. E' proprio lui, più noto come “il buon ladrone”! Quante leggende sul suo conto! Secondo una di queste avrebbe partecipato al sequestro di Maria e Giuseppe col piccolo Gesù, durante la loro fuga in Egitto, salvo poi liberarli... per ritrovarsi, 33 anni più tardi, accanto a quello stesso bambino, crocifissi insieme sul Golgota…
Storie belle che invitano anche noi al sì…


martedì 24 marzo 2015

L'annunciazione: Maria tutta Parola

Simone Martini, Beato Angelico, Botticelli, Leonardo, Antonello da Messina, Caravaggio, Lorenzo Lotto… Quale tra le tante Annunciazioni dei nostri pittori ci aiuterà, questo 25 marzo, a contemplare la festa dell’Annunciazione? Quale artista non è strato attratto da questo momento di sorpresa e d’incanto legato all’incontro tra l’angelo e Maria?

Il dipinto più bello ce l’ha lasciato Luca, che non a caso la tradizione ha voluto pittore. L’ha dipinto all’inizio del suo Vangelo, con parola che ogni giorno recitiamo decine di volte: “Ame, piena di grazia, il Signore è con te…”.
Dio timidamente chiede se può sposare Maria. Addirittura non osa chiederglielo direttamente. Come si usava una volta, manda un suo amico, nel timore di ricevere un no. Ma sa che quello di Maria sarà un sì. L’ha preparata da tutta l’eternità perché acconsentisse, l’ha preservata dal peccato proprio per questo, perché le dicesse di sì. Dio che chiede il permesso per entrare nell’umanità, per farsi uno di noi.

Mi sono sempre piaciute le parole con cui Origene parafrasa quel sì di Maria: «Io sono un foglio bianco, dove lo scrittore può scrivere ciò che vuole. Faccia di me ciò che vuole il Signore dell’universo».

Fu così che il Verbo si fece carne e Maria si ritrovò pervasa della Parola di Dio e si trasformò tutta in Parola di Dio. Lei accoglieva il Verbo di Dio e il Verbo di Dio la avvolgeva. L’immagine della nube che l’angelo usa per spiegare come ciò avverrà (“su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”) richiama l’immagine della nuba che scendeva sull’arca dell’alleanza dell’Antico Testamento, come testimonia san Massimo di Torino: mentre l’arca portava dentro di sé le tavole dell’alleanza, Maria portava in sé l’erede della stessa alleanza; «Quella conservava dentro di sé la Legge, questa l’Evangelo; quella aveva la voce di Dio, questa il vero Verbo...».

lunedì 23 marzo 2015

Giovanni Santolini, eroe per abitudine




Diciotto anni fa – era la Domenica delle Palme – Padre Giovanni Santolini partiva per il cielo! Kabila con i suoi ribelli era alle porte di Kinshasa. La sera del 22 aveva inviato questo messaggio a Monika-Maria, dall’altra parte della città, la quale mi oggi mi ha scritto dicendomi che quel biglietto è per lei ancora “una eredità preziosissima. L’avevo letto solo dopo la sua partenza!”
Eloquenti i messaggi che aveva inviato per internet in quei giorni:

“Oggi hanno preso Kisangani e sembra che da due giorni ci siano dei saccheggi con violenze e solite cose da parte dei soldati zairesi… I mercenari serbi hanno messo un sacco di mine, ma senza schema, in disordine, per cui non si più entrare in foresta perché salti in aria come un palloncino… La gente è terrorizzata perché non può più andare nei campi a coltivare o a cercare da mangiare… La situazione qui a Kinshasa adesso è abbastanza tesa. Infatti, una parte dell’esercito aveva detto che, se cade Kisangani, faranno immediatamente un saccheggio a Kinshasa, perché anche loro cogliono la loro parte.
Soliti dilemmi, partire o restare, aspettare che scoppi il caos oppure salvarsi prima? Ma poi, se si parte e non succede niente, che cosa pensano i cristiani dicendo che li abbiamo abbandonati" (Sabato 15 marzo 1997).

“Dicono che presto ci sarà un colpo di stato.. Le possibilità sono diverse, ma il fatto è sempre lo stesso: se scoppia il caos, non c’è nessuno che possa essere in grado d fermare l’incendio una volta che si è acceso. Per il momento stiamo a vedere e poi siamo abituati a vivere il momento presente” (Domenica 16 marzo).

Così è rimasto… “eroe per abitudine”.



domenica 22 marzo 2015

Farò la Pasqua da te


«Andate in città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”».
Stava leggendo il Vangelo che lo introduceva nel Triduo santo, quando rimase colpito da quel “tale”. Chi sarà stato quel tale a cui il Signore inviava i suoi due discepoli con l’invito a prestargli la casa per celebrare la Pasqua? “Un tale”. Anche lui si sentiva uno qualunque, “un tale”.
E se il Maestro si stesse rivolgendo proprio a lui? Se fosse proprio lui quel tale a cui il Maestro chiedeva di fargli posto in casa?
Apa Pafnunzio non sapeva se gioire per l’onore che gli veniva riservato oppure turbarsi nel constatare l’inadeguatezza dell’accoglienza che avrebbe potuto offrire al Maestro.
Quel tale aveva una grande sala al pieno superiore della casa, adatta alle esigenze, degna di una così grande celebrazione. Ma lui, apa Pafnunzio, non aveva che una misera cella, per niente idonea ad accogliere il Signore.
Eppure sentiva che la richiesta era proprio rivolta a lui: “Il Maestro dice: farò la Pasqua da te”. Come avrebbe fatto a preparare in maniera degna la sua misera dimora?
Continuò poi nella lettura del Vangelo e si accorse che v’era scritto: “I discepoli… prepararono la Pasqua”. Non avrebbe avuto di che preoccuparsi, ci avrebbero pensato altri a preparare l’occorrente, a lui si chiedeva solo la disponibilità ad accogliere il Signore.
Sì, era disposto a far entrare il Maestro nella sua casa. 
Udì la sua voce: “Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre, entrò da lui e cenerò con lui”.
Apa Pafnunzio aprì la porta. Il Maestro venne. 
Ed era già Pasqua.

sabato 21 marzo 2015

Vogliamo vedere Gesù


Alcuni Greci si avvicinarono a Filip­po, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».

Anche noi vogliamo vederti, Gesù.
Ti abbiamo trovato,
ma non finiremo di cercarti,
non ci stancheremo di cercarti
fino a quando ti lascerai trovare,
ancora,
vedere.

venerdì 20 marzo 2015

La parola prima dei libri

Sant'Eugenio predica la missione a Remollon  nel 1819
«Gli Oblati di Maria Immacolata hanno ricevuto, come gli apostoli, la missione non di scrivere, ma di predicare: Mi ha mandato ad annunciare la buona novella ai poveri. Essi vi sono rimasti fedeli. Il numero delle missione e dei ritiri che hanno predicato sorpassa di molto quello dei libri che hanno scritto». Queste parole, con le quali M. Bernad apre una raccolta bibliografica dei primi cento anni di vita degli Oblati, esprimono appieno la convinzione che animava sant’Eugenio.
Egli era l’uomo della parola. Prima di tutto perché credeva nell’efficacia sacramentale dell’annuncio missionario. Considerava le missioni come l’autentico annuncio della Parola, affidato da Gesù ai suoi apostoli:  «Sono la stessa predicazione che Gesù Cristo aveva imposto ai suoi Apostoli che l’hanno fatta risuonare in tutto l’universo (Rom. 10,17-18) (…) insegnano la stessa verità, promulgano le stesse leggi e si realizzano con la stessa autorità, (…) ordinariamente manifestano in modo così ammirabile la potenza della Parola di Dio per illuminare, consolare e salvare le anime che, toccate dalla grazia e docili alla voce dall’Alto, corrispondono alle proposte della divina misericordia». Eugenio era l’uomo della Parola anche perché aveva il dono della parola, dell’eloquenza. La sua predicazione attirava, incantava, trascinava.
Faceva affidamento soprattutto sulla predicazione per la conversione dei peccatori, mentre aveva poca fiducia nei libri. A P. Suzanne, che stava componendo un’opera apologetica sulla religione cristiana, così scrive, il 25 agosto 1827: «La grazia della conversione è fondamentalmente legata alla parola, è opera di Dio; i miracoli si compiono attraverso di essa. È questa la rete misteriosa, quando viene gettata nel nome di Gesù. Da san Pietro ai nostri giorni, e sarà così fino alla fine dei tempi, è grazie alla parola parlata e non alla parola scritta che avvengono le numerose conversioni.
Il criterio di discernimento che guidava costantemente sant’Eugenio era quello dell’evangelizzazione. Non ammetteva distrazione alcuna dalla predicazione delle missioni al popolo. Tutto il resto gli sembrava una perdita di tempo, compreso scrivere libri. Tutto doveva essere in vista della predicazione: aveva fondato una Società di “missionari” e tale voleva che fossero i suoi Oblati.
Era un po’ preoccupato, io uomo di libri… Finché mia sorella mi ha detto: “Ma quanto hai parlato in vita tua!” Meno male… allora sono in vocazione.

giovedì 19 marzo 2015

Auguri Celso




40 anni fa Celso veniva ordinato prete.
40 anni di vita missionaria in Africa.
Così lontano, come facciamo a farti festa?
per fortuna ci hanno pensato le Suore di Madre Teresa, questa mattina.
La torta è modesta, ma la sfilata dei bambini è da grandi occasioni.

Ricordi il primo incontro, a Vallada, nel 1968? Sul mio computer ho un tuo racconto che rievoca quei giorni antichi:

A dire il vero, l’inizio non fu dei più entusiasti. Non ero mai uscito dalla mia terra, se non per un viaggio a Roma a far visita a mia sorella. (…) Presi il treno a Verona e cambiai a Vicenza, direzione Belluno. Scesi a Sedico Bribano. Da lì pullman di linea per Agordo, e dopo un attimo di ristoro, altro pullman per Canale. Scesi a Celat, una frazione di Vallada. Mi sembrava un viaggio interminabile, specie quello in treno. Erano queste le parole della prima lettera scritta a mia madre una volta raggiunto il posto.
Da Celat cominciai a salire, con la zaino sulle spalle, in direzione di Andrich (secondo le istruzione ricevute). Arrivato, mi fu indicata la casa dove “si trovavano i giovani”. La prima persona che incontrai fu Scolastica, che mi accompagnò dentro e mi mostrò il letto che mi era destinato. Era una cameretta con 4 o 5 letti. Incontrai poi il primo “giovane” chiamato Raffaele Fiorenza, che mi chiese subito, sorridente: sei Celso? Quel primo approccio mi fece tanto piacere. Mi disse che potevo riposare, se volevo. E così mi distesi sul letto. Dopo circa un’ora arrivarono gli altri: un gruppo di sette o otto ragazzotti, che parlavano tra loro a voce alta. Vedendo l’intruso, fecero silenzio e poi si fecero avanti intorno al letto. Uno mi chiese: chi sei? E un altro: da dove vieni? E altre domande di questo genere. Poi si ritirarono e si consultarono. Avevano deciso di chiedermi se avevo fame. Pensai che era meglio rispondere di sì, perché ero già stanco di stare a letto. E così uno mi accompagnò in cucina mostrandomi il pane e il salame. (…)
Il tempo passava tra passeggiate sui monti e incontri. Durante gli incontri ci si soffermava spesso su una frase del Vangelo, che chiamavano la Parola di Vita. Tutti avevano sempre qualcosa da dire, eccetto io. Non ero abituato a dire le mia cose in pubblico. (…)
 Pochi giorni dopo arrivò il superiore: si chiamava P. Marino. Era una persona seria e di poche parole. Arrivò anche P. Angelo, che avevo avuto modo di conoscere alcuni anni prima. E fece la sua apparizione anche un certo Fabio, proveniente da Firenze. Si vedeva subito, e soprattutto si sentiva, che proveniva dalla terra di Dante. Non credo di avergli fatto buona impressione, con la mia serietà. Dopo alcuni giorni vedevo che anche lui prendeva l’andazzo degli altri e quindi stavo perdendo un po’ di stima nei suoi riguardi. Un giorno andammo a fare una passeggiata nei boschi, per prendere un po’ di legna per il fuoco. Fabio avevo una zaino e vi mise dentro un grosso ceppo. Mi dissi subito: non dovevo pensare male di lui, non è un teorico, ma si sta dando da fare per la nostra cucina. Fu grande però la mia delusione quando la sera vidi Fabio lavorare attorno a quel ceppo per farne un oggetto artistico. Fabio però non rimase a lungo, forse una settimana, e non fu possibile conoscerci meglio. Gli anni che seguirono furono ben diversi. (…)

Chi mi ha aiutato a fare il passo sono state varie circostanze, ma specialmente sono stati i padri che ho incontrato a Vallada. In un periodo di contestazione come era il ‘68, vedere sacerdoti che davano una testimonianza di semplicità e di carità in un modo tanto  visibile e concreto era qualcosa di unico. Per me poi era assolutamente nuovo.

mercoledì 18 marzo 2015

Condividere la sapienza


Quando Ulisse partì da Itaca per andare a guerreggiare a Troia, affidò il suo giovane figlio Telemaco alle cure di Mentore. Da allora quel nome iniziò ad indicare un maestro che, pur con la sua saggezza ed esperienza, non si presenta come gerarchicamente superiore a colui che assiste; la sua guida è discreta, non impositiva. Così narra “una parola al giorno”, un caro sito che ogni giorno ci fa scoprire sempre nuove parole.

Ho la gioia di essere un “mentore” in questo periodo. Prima con Bonga, del Sud Africa, rimasto con me tre settimane, adesso con Jasmin di Haiti, attualmente in Colombia, e Asodo, indonesiano attualmente ad Aix-en-Provenza, con me per essere introdotti, giorno per giorno nello studio delle fonti del carisma oblato. Viaggiamo insieme, ora dopo ora, in un rapporto personale, tra carte antiche e sogni sul futuro. È bello poter condividere ciò che si sa. “Senza frode imparai e senza invidia io dono, non nascondo le sue ricchezze” (Sapienza, 7, 13).

martedì 17 marzo 2015

Profeti di un mondo nuovo

P. Louis, superiore generale, ha invitato tutti gli Oblati a riprendere in mano le loro Regole e rileggerle con calma. È quello che sto facendo in questo periodo.
Mi sembra di leggerle per la prima volta. Sono di una bellezza e di una ricchezza da incantare.
Tra le tante cose mi ha colpito l’espressione “mondo nuovo”, ripetuta tre volte:
“Annunciano… il mondo nuovo, nato dalla sua risurrezione” (C 9).
“Proclamano l’avvento di un mondo nuovo, libero dall’egoismo e aperto alla comunione dei beni” (C 20).
“Vogliamo testimoniare il mondo nuovo nel quale gli uomini si riconoscono in stretta dipendenza gli uni dagli altri” (C 25).
È la testimonianza e la speranza che siamo chiamati a dare con la nostra persona, la nostra comunità, il nostro lavoro: una vocazione profetica.
Profetica… quindi quel mondo nuovo che siamo chiamati a creare rimanda a al “nuovo mondo”, quello dei “cieli nuovi e terra nuova”: anticipazione di Paradiso.
Chissà che anche il Congresso che stiamo preparando non vada in quella direzione: uno sguardo al video

lunedì 16 marzo 2015

La misericordia di papa Francesco e di Bonhoeffer


Papa Francesco ha annunciato un anno santo della misericordia. 
Ho letto in proposito questo bellissimo testo di  Dietrich Bonhoeffer:

Ogni giorno la comunità cristiana canta: «Ho ricevuto misericordia». Ho avuto questo dono anche quando ho chiuso il mio cuore a Dio; quando ho intrapreso la via del peccato; quando ho amato le mie colpe più di Lui; quando ho incontrato miseria e sofferenza in cambio di quello che ho commesso; quando mi sono smarrito e non ho trovato la via del ritorno. Allora è stata la parola del Signore a venirmi incontro. Allora ho capito: egli mi ama. Gesù mi ha trovato: mi è stato vicino, soltanto Lui. Mi ha dato conforto, ha perdonato tutti i miei errori e non mi ha incolpato del male. Quando ero suo nemico e non rispettavo i suoi comandamenti, mi ha trattato come un amico. Quando gli ho fatto del male, mi ha ricambiato solo con il bene. Non mi ha condannato per i misfatti compiuti, ma mi ha cercato incessantemente e senza rancore. Ha sofferto per me ed è morto per me. Ha sopportato tutto per me. Mi ha vinto. Il Padre ha ritrovato suo figlio. Pensiamo a tutto questo quando intoniamo quel canto. Fatico a comprendere perché il Signore mi ami così, perché io gli sia così caro. Non posso capire come egli sia riuscito e abbia voluto vincere il mio cuore con il suo amore, posso soltanto dire: «Ho ricevuto misericordia». (23 gennaio 1938, La fragilità del male)

domenica 15 marzo 2015

La preghiera di Chiara Lubich in 2’ e 20’’


Il telegiornale di TV Prato ha mandato in onda un bel servizio sulla presentazione del libro della preghiera, con una breve intervista.


Per il blog di ieri con l'evento: http://fabiociardi.blogspot.it/2015/03/a-prato-la-preghiera-da-il-senso-della.html

sabato 14 marzo 2015

A Prato: la preghiera dà senso alla vita

Sorto su precedenti insediamenti, nel 1326 uno degli antichi ospedali di Prato fu trasformato in convento di Clarisse. Passata attraverso mille vicissitudini, la chiesa di santa Chiara attualmente è adibita a sala di esposizioni e di convegni. Ancora leggibili gli affreschi che narrano la vita della santa.
Oggi settimo anniversario della morte di un’altra Chiara, Chiara Lubich, l’antica chiesa è tornata ad essere luogo di preghiera. Non perché vi si siano svolte preghiere particolari, ma perché si è parlato di preghiera.
Ho avuto infatti la gioia di presentare il mio libro sulla preghiera, trasformando l’incontro tra tante persone convenute in una preghiera vivente.
Non è, questo della preghiera, un tema di altri tempi o riservato a persone “pie”, ma di grande attualità e interesse, anche per quanti che non professano una fede religiosa, come ha testimoniato la loro presenza attenta e partecipata.
Come trovare il senso della vita senza preghiera? Come essere se stessi senza essere in rapporto con Dio, o con chi ce lo rappresenta qua in terra, ossia con ogni persona attorno a noi?
L’incontro so trasforma così in preghiera, con le parole scritte da Chiara Lubich: “Signore, rendi la nostra vita così ammantata di soprannaturale che quando siamo soli, e camminiamo o lavoriamo o studiamo, chi ci sfiora senta il tuo profumo e, quando siamo insieme chi ci incontra si senta attratto fortemente a tuffarsi nel Regno di Dio presente in mezzo a noi.”


venerdì 13 marzo 2015

Papa Francesco: Per una Chiesa plurale

Due anni di pontificato (oggi è l'anniversario dell'elezione) sono bastati a papa Francesco per proporre una nuova immagine di Chiesa. Da un diffuso rifiuto nei riguardi di essa, si è passati ad un inatteso interesse, ad una pregiudiziale positiva. È sicuramente frutto delle sue parole e dei suoi gesti, della vicinanza alla gente, del rifiuto di ogni apparato barocco, della palese sincerità dell’agire, della trasparenza nelle scelte. Ma anche del recupero della categoria biblica di “popolo di Dio”: una Chiesa dove c’è posto per tutti. Un popolo che procede a volta in maniera un po’ disordinata e caotica, portandosi dietro feriti e persone deboli, ma pur sempre popolo di Dio. Era stata la definizione privilegiata del Concilio Vaticano II, eppure dopo pochi anni venne volutamente emarginata dalla riflessione teologica (con le conseguenze ricadute nella pastorale), perché ritenuta troppo sociologia: si prestava a fraintendimenti, soprattutto nell’America Latina. E proprio dall’America Latina papa Bergoglio se la porta con sé a Roma e la ripropone a tutti. Nell’Evangelii gaudium l’ha ripetuto a chiare lettere: «Tutto il popolo di Dio annuncia il Vangelo», è «Un popolo dai molti volti», dove «tutti siamo discepoli missionari».
A papa Francesco non piaccia un modello di Chiesa irreggimentata, statica, “sferica”. Il modello che propone è dinamico e “poliedrico”, spigoloso, ricco delle sue diversità, con tensioni di cui non si deve avere paura, ma che sono piuttosto occasione di continua crescita. Il 1° novembre dello scorso anno, parlando alla Catholic Fraternity of Charismatic Covenant Communities and Fellowships, raggruppamento di associazioni carismatiche prevalentemente cattoliche, ha affermato con coraggio: «L’uniformità non è cattolica, non è cristiana. (…) L’unità non è uniformità, non è fare obbligatoriamente tutto insieme, né pensare allo stesso modo, neppure perdere l’identità. Unità nella diversità è precisamente il contrario, è riconoscere e accettare con gioia i diversi doni che lo Spirito Santo dà ad ognuno e metterli al servizio di tutti nella Chiesa».
Per questo è diventato da subito il papa di tutti: da qualsiasi parte uno sia schierato sente che papa Francesco lo raggiuge lì dove è, senza giudicarlo, con quella misericordia e tenerezza di cui si è fatto ambasciatore, perché «unità è saper ascoltare, accettare le differenze, avere la libertà di pensare diversamente e manifestarlo! Con tutto il rispetto per l’altro che è il mio fratello». Vale per sé quello che propone a tutti: «Non abbiate paura delle differenze!».  
In una parola: «siamo tutti figli di Dio, e tutti amati in modo unico. (…) Questa è la Chiesa!» (1 ottobre 2014).


giovedì 12 marzo 2015

Religiosi e laici insieme: un’unica famiglia


«Sta nascendo una nuova realtà: famiglie, coppie, persone singole, giovani desiderano impegnarsi più strettamente con noi manifestando un attaccamento particolare al nostro carisma… Questo fenomeno, relativamente nuovo, è un segno dei tempi. Noi non siamo proprietari del nostro carisma: esso appartiene alla Chiesa. Siamo perciò felici che dei alici, chiamati da Dio, vogliano condividerlo»
Così si esprimeva il Capitolo generale degli Oblati più di 30 anni fa.
Oggi ho accolto in casa una quarantina di consiglieri generali di differenti Istituti religiosi per parlare del fecondo rapporto i laici che condividono con i religiosi lo stesso carisma.

Stanno prendendo sempre più piede l’idea e la realtà della “Famiglia carismatica”, sul riconoscimento che il carisma di un fondatore trova incarnazione non solo nella consacrazione religiosa, ma anche in altri modi di vivere la vita cristiana, creando crea legami profondi tra tutti coloro che sentono la propria vita animata dallo stesso carisma.

mercoledì 11 marzo 2015

Nelle stanze di S. Filippo Neri

A Roma sant’Eugenio de Mazenod si trovava come a casa sua. Era ammirato della città che percorreva in fretta a piedi da un lato all’altro per mille incombenze. Ma non si prendeva il tempo per visitare i monumenti, se non quelli cristiani. Quando ormai il suo primo soggiorno, dopo cinque mesi, stava volgendo al termine, nel diario annotava: “Non ho quasi il coraggio di confessare che, unicamente preso dai miei affari a Roma, ho messo poca cura nel visitare le curiosità che attirano tanti stranieri in questa superba città. Attento solo a cercare i monumenti di cui la pietà di tutti i secoli ha lasciato tante tracce, ero soddisfatto nel visitare una basilica, pregare sulla tomba di un santo, contemplare qualcuna delle loro opere e i luoghi da loro abitati. Eccomi sul punto di lasciare Roma e non ho visto una sola villa…” (16 aprile 1826).
Il giorno dopo, sempre attratto dai santi, decise di visitare la chiesa di S. Girolamo della Carità tra Piazza Farnese e Via Giulia, dove san Filippo Neri aveva vissuto ben 33 anni della sua vita, dal 1551 al 1583, fondandovi l’Oratorio.
La chiesa sorge su rovine di epoca romana, identificate come la casa della nobile matrona santa Paola, che nell'anno 382 ospitò san Girolamo, invitato a Roma da papa Damaso. Per questo si chiama Chiesa di san Girolamo.Nel 1524 Clemente VII l’aveva data alla Arciconfraternita della Carità. Per questo san Girolamo alla Carità.
Oggi la chiesa è abitualmente chiusa. Per entrare devo suonare il campanello della attigua casa delle suore, che gentilmente mi introducono in questo gioiello. Subito appare la Cappella Spada, il capolavoro del Borromini. Dopo aver visto la cappella di san Filippo dello Juvarra, salgo su in alto, nella stanzetta dove viveva san Filippo e dove accoglieva amici e penitenti. Mi piacerebbe essere in compagnia degli altri visitatori del suo tempo, tra i quali S. Ignazio di Loyola, S. Felice da Cantalice, S. Carlo Borromeo, S. Camillo de Lellis… Oltre alle visite c’erano dei compagni fissi: la gatta, gli uccellini nella gabbia sempre aperta, il cagnolino Capriccio, bastardino bianco a chiazze rosse…
Visita che ti visito, la stanzetta risultò troppo angusta e fu necessario adattare il granaio posto sopra la navata destra della chiesa a sala di incontro. È così che nacque l’Oratorio.
Mi siedo nella stanza dove san Filippo ha vissuto e apro il diario di sant’Eugenio: “17 aprile 1826. Desideravo da molto tempo celebrare il santo sacrificio nella camera occupata per più di 30 anni da S. Filippo Neri e di servirmi dello stesso calice usato da lui. L’altro giorno, con questo scopo, sono andato a tastare il terreno per non illudermi. Mi promisero che qualsiasi giorno avessi scelto, sarebbero stati contenti di soddisfare la mia devozione. Sono dunque andato questa mattina e la cappella è stata immediatamente aperta ed è stato preparato il prezioso calice. L’altare si trova proprio nella piccola camera occupata dal santo, proprio quella in cui fu favorito da tante visioni celesti. Quella in cui fu visitato da S. Carlo Borromeo, S. Ignazio di Loyola, S. Felice da Cantalice. Questa stanza è stata la sola di tutta la casa a non essere stata preda delle fiamme. Il Signore non ha voluto permettere che un santuario così caro alla pietà fosse tolto ai fedeli che, da diverse parti del mondo vengono ad attingervi buoni sentimenti”.

San Filippo era dei santi preferiti di sant’Eugenio. Quando questi ebbe l’idea di dare vita ai Missionari di Provenza pensò subito di ispirarsi alle sue regole. Vedeva i membri della futura comunità uniti come i padri dell’Oratorio. Nella prima lettera a p. Tempier, che diventò il suo promo compagni, aveva scritto: «Spero che avverrà di noi quel che fu dei discepoli di S. Filippo i quali, liberi come resteremo noi, morivano prima di pensare di uscire da una Congregazione amata come una mamma». Un anno prima aveva scritto al suo amico Forbin Janson, in visita a Roma, perché gli procurasse una reliquia di Filippo Neri “che è uno dei patroni della mia piccola associazione della gioventù”, premurandosi di aggiungere: “ma che sia autentica!”. Insieme gli chiese “la vita migliore di s. Filippo Neri”. Infine gli raccomandò: “Nel tuo interesse non dimenticare di dir messa col calice di cui si serviva lui”. Ora finalmente Eugenio stesso poteva celebrare la messa con quel calice. Da giovane sacerdote Eugenio aveva scritto anche una pagina delle sue note spirituali nel quale raccontava in maniera dettagliata come san Filippo diceva messa. Sicuramente, quella celebrata nella stanza del santo, l’avrà vissuta, come san Filippo, “con una devozione straordinaria…”.
Come le suore con me, Eugenio scrive che anche allora il decano della chiesa e il sacrestano furono “gentili oltre misura… e, dopo il ringraziamento della messa, ho dovuto accettare una tazza di cioccolata”.
Tornò nella stanza di san Filippo dieci giorni più tardi, il 27 aprile, come annota ancora nel diario: “Non contento di aver detto la messa col calice di S. Filippo Neri nella camera che occupava a S. Girolamo della Carità e sull’altare dove riposa il suo corpo, ho avuto la devozione di dirla anche nella cappella vicina alla camera che occupava e che è la stessa cappella in cui si fermava molto a lungo per celebrare i divini misteri… Nella stanza davanti si vedono, in un armadio a vetri, il confessionale in legno comune con una griglia dai piccoli fori, la sedia dalla quale istruiva il popolo, il letto, un piccolo scaldino per riscaldarsi, scarpe, ecc. In seguito ho visitato la casa che è molto bella, la biblioteca che è stata salvata per intero”.
Una targa di marmo ricorda che quelle stanze furono un cenacolo di santità. Sant’Eugenio ha continuato la tradizione. Potremmo visitarle anche noi per entrare a far parte di quel cenacolo.

martedì 10 marzo 2015

A Sant’Eustachio: Viaggio con guida


Giovedì scorso la metafora della mappa è risultata efficace. Le mappe oggi sono sempre più sofisticate, tecnologiche. Ci sono poi guide turistiche sempre più dettagliate che consentono di viaggiare con tutte le indicazioni necessarie.
Ma vuoi mettere se a guidarti in un viaggio o nella visita a una città è una persona in carne ed ossa, che già conosce la strada, che è del luogo e che sa tutto di tutto?
Ce ne parlerà giovedì prossimo una guida vera, di “Incontri romani”. Sarà interessante sapere cosa vuol dire fare la guida a Roma.
Personalmente penso sempre con grato ricordo alla mia prima guida di montagna, Orazio, che nel lontano 1968 (?) mi portò fin sul Civetta, 3200 metri, nelle Dolomiti bellunesi. Un’avventura indimenticabile. Insegnava a mettere i piedi sulla pietra, nella fenditura giusta della roccia… mentre a valle, nella chiesetta di Andrich, la gente, non vedendoci tornare, pregava impensierita. Noi tranquilli: avevamo la guida!
Oppure poche settimane fa un amico di Firenze mi ha tenuto due ore inchiodato con la testa in fu a vedere la cupola del duomo e quella del battistero: cose che si possono forse leggere sui libri, ma che raccontate da chi vive lì è tutta un’altra cosa.
E nel cammino della vita? Che dono avere una persona d’esperienza che è già passata per prove e difficoltà, che conosce la via, e che può aiutare a percorrerla con sicurezza e coraggio…
Allora a giovedì, stesso luogo, stessa ora.


lunedì 9 marzo 2015

Più di un crocifisso appeso al muro



Ero alla posta. Seduta aspettavo il mio turno. È arrivata una anziana signora che si è seduta davanti a me; un uomo si lamentava un po' per il fatto di dover "perdere tempo". La signora ha pronunciato una frase piena di saggezza: “Il tempo lo manda Dio”.
Mi ha fatto riflettere: questa frase  pronunciata in un luogo pubblico mi è sembrata quasi una giaculatoria. Quando non ci saranno più gli anziani nessuno dirà frasi simili, che a mio avviso fanno più effetto di un crocifisso appeso al muro.

Come ricevo, così condivido... 

domenica 8 marzo 2015

La Parola di vita: come il pane con la mortadella


Quando venni la prima volta c’era soltanto un container che serviva da cappella. Ora, in mezzo ai palazzi dai mille appartamenti, campeggia la bella chiesa dell’Immacolata, con davanti via Chiara Lubich e il Parco del sorriso. Uno spazio ordinato, arioso, verde: un piccolo gioiello urbanistico nella caotica zona tra Santa Maria Capua Vetere e San Prisco. La comunità degli Oblati, quella della parrocchia, dei laici oblati e del Movimento dei focolari mi hanno accolto con calore. La presentazione del mio libro (con affluenza numerosa e vendita di 61 copie, più quella di altri libri miei; fatto straordinario, a dire dell’agente librario, soprattutto in questa zona) è stata l’occasione per incontrare tante persone e per parlare con tutta la passione che ho dentro. Il mio pubblico, in genere, è molto selezionato. Ogni tanto fa bene parlare alla e con la gente comune. È davvero bello il popolo di Dio!

“Porto il foglietto con la parola di vita al dentista – mi racconta una signora. Dopo un po’ di volte avevo timore di essere indiscreta, ma lui mi ha detto: L’aspetto come quando aspetto il pane caldo per metterci dentro la mortadella”.
Un’altra: “La parola di vita di questo mese – Chi vuol seguirmi prenda la sua croce e mi segua… – la vivo da vent’anni. Quando mi invitarono al primo incontro c’erano dei foglietti da scegliere, con delle parola del Vangelo. A me capitò proprio quella parola. Ci rimasi male perché mi sembrava troppo dura. Sei mesi dopo il tumore, tante difficoltà, tre operazioni… Quella parola del Vangelo mi ha aiutato tanto. Sono riuscita a portare avanti la mia famiglia con serenità nonostante le varie prove”.