lunedì 31 ottobre 2016

Tutti santi, ma come?



Tutti santi, ma come?
È terminata la tre giorni di festa per i 200 anni della fondazione degli Oblati. Al suo culmine, la celebrazione dell’Anno santo della misericordia.
A me il colpito, questa mattina, di dettare un breve pensiero di meditazione su quell’idea e quell’esperienza di misericordia che ha dato vita, 200 anni fa, agli Oblati.
Ho così letto poche righe delle note che sant’Eugenio scrisse in occasione del ritiro che precedette la sua ordinazione sacerdotale. Era estasiato di come Dio si vendicava di lui peccatore: lo invitava a diventare sacerdote; era così che Dio si vendicava, raddoppiando l’amore. Così canta di lui:
«Sei l’amico generoso, che si è dimenticato di tutte le mie ingratitudini: mi aiutarmi con forza come se ti fossi sempre stato fedele».
Poi ricorda le tre parabole della misericordia: il padre che accoglie il figlio minore che era fuggito, il pastore buono che va in cerca della pecora smarrita, il buon Samaritano che si prendere cura dell’uomo ferito:
«Sei il mio tenero padre,
Hai portato questo ribelle sulle vostre spalle
lo hai riscaldato sul tuo cuore, lo hai curato nelle sue piaghe:
mi pare che tu abbia riservato la tua misericordia a me soltanto».
Conclusione: «Amo sprofondarmi nell’oceano della misericordia di Dio… Dio infinitamente misericordioso. Mio Dio, più ricordo dei miei peccati, più ricordo la tua misericordia, perché tu sei il mio Dio!».

Ho concluso con una riga del suo diario, quando ormai Eugenio, vescovo di Marsiglia, è anziano. Uno dei momenti più belli per lui era quando portava il Santissimo Sacramento in processione per le strade della città e dei paesi. Era il momento in cui la confidenza con il Signore si faceva più tenera e intensa. Ecco dunque quanto scrive dopo una di queste processioni:
«Il pensiero dei miei peccati avrebbe dovuto spaventarmi, ma mi sembra che in questi momenti preziosi la misericordia del mio Salvatore assorba ogni paura, ogni terrore e che nel mio cuore ci sia posto solo per la fiducia e per l’amore».
È diventato missionario per essere strumento della misericordia di Dio; ha dato vita ad un gruppo di missionari perché fossero strumenti di misericordia di Dio. Ossia dell’amore di Dio, un amore concreto, vicino, che tutto rinnova, che assimila fino a trasformare il peccatore in amore, rendendolo pienamente figlio di Dio.

Festa di tutti i santi. Appello alla santità.
Come diventare santi? Accogliendo la misericordia di Dio, fino a farsi testimoni di tanto amore, fino a diventare strumenti di misericordia.


Famiglia Oblata a Sacrofano: 700 per 200



700 x 200 non fa 140.000, ma fa festa! Siamo 700 persone, da tutta Italia, convenuti a Sacrofano, nella bella campagna romana, per festeggiare i duecento anni della nascita degli Oblati.
Tre giorni di eventi, comunione di esperienze, spettacoli, preghiera per ringraziare Dio di aver donato alla Chiesa questa grande famiglia carismatica, che da duecento anno cerca di portare ovunque l'annuncio del Vangelo, pur nella povertà dei mezzi e nella semplicità della vita.
Un pungo di Oblati e tantissimi laici che con loro condividono il carisma, la spiritualità, la missione.
In tante altre parti del mondo quest'anno si sono tenuti analoghi momenti celebrativi, ora è la volta dell'Italia.


Gli arrivi segnano già l’avvio della festa. Il primo effetto è la percezione di fare parte di un grande famiglia. Con alcuni ci frequentiamo, con altri ci incontriamo dopo anni. Fra tutti c’è il “riconoscimento”, immediato e bello, non soltanto perché  ci siamo conosciuti in tante occasioni, ma perché sentiamo scorrere lo stesso sangue.
La serata di sabato è affidato ai giovani dell’MGC. Ci raccontano la loro esperienza all’MGC di Cracovia, cantano le loro canzoni, giovano e ci fanno giocare. Livello artistico scarso, ma nessuno lo pretende, sono semplicemente i nostri giovani, siamo a casa, tra di noi, ci piace il clima familiare, la gioia semplice e vera, la festa che ci coinvolge.
Il cuore della domenica mattina è la conferenza dello storico e biblista Andrea Lonardo, l’unico, tra tutti, che non fa parte della famiglia. L’abbiamo invitato a parlarci per avere una lettura di sant’Eugenio e della sua storia missionaria da una persona che lo guarda da fuori, collocandola soprattutto nel suo ambiento storico. Ed stato un bello sguardo, con un grande tentativo di attualizzazione del suo messaggio. Fondamentale la premessa che inquadra la santità di sant’Eugenio e della sua fondazione: “La santità è un elemento essenziale per la comprensione della fede. I santi sono i più profondi interpreti del Vangelo. Non c’è santità senza missione. La salvezza personale è inscindibile da quella degli altri”.


Anche l’arte rievoca i nostri inizi: a sera lo spettacolo musicale con Mite, la sua band, e Aquero dà il tocco all’intera giornata, con un’interpretazione geniale di sant’Eugenio e della storia missionaria degli Oblati.
Ma la festa non si è limitata a rievocare gli inizi; è stata soprattutto condivisione di esperienze di oggi, di vita che continua, della missione vissuta dalla nostra gente, nei loro ambienti quotidiani.
Profondi e intensi i momenti di preghiera. Originali le due ore passate in preghiera e meditazione itineranti nel bosco inondato dal sole. Ad un certo momento la nostra gente ha cominciato a ricordare, chiamandoli chiamare per nome, tanti Oblati italiani conosciuti in tutti questi anni e ormai in cielo: li abbiamo sentiti di nuovo presentissimi e unitissimi a noi.
I duecento anni diventano spinta ad andare oltre, a portare avanti gli ideali degli inizi.


sabato 29 ottobre 2016

Ricerca reciproca

  
Il sicomoro di Gerico
Zaccheo salì su un sicomoro, perché Gesù doveva passare di là.

La simpatia va subito a quell’ometto piccolo di statura, furbo, sempre di corsa, intraprendente, determinato, libero dai condizionamenti sociali, da ciò che pensa e dice la gente.
Oggi un solo pensiero lo guida: il desiderio di vedere Gesù. È mosso dall’inquietudine, dal disagio interiore. Ha i soldi e si sente vuoto, non gli bastano a colmare il cuore, anzi lo inaridiscono. È insoddisfatto, ma non rassegnato.
Ed eccolo sull’albero. È curiosità la sua o una segreta ricerca di felicità, il desiderio sincero di un incontro che cambi la vita? È comunque un’iniziativa premiata: trova la gioia, la forza della conversione, della generosità e del dono, la salvezza. Non si ripiega sui propri sbagli: è libero perché liberato.
Quanti troverebbero la felicità e la pienezza della vita se si mettessero alla ricerca del volto di Dio, se si accendesse in essi il desiderio di lui, se andassero oltre le convenienze sociali, se vincessero i pregiudizi dei luoghi comuni su di lui, sulla Chiesa e avessero il coraggio di lasciarsi interpellare dal vangelo...!
Anche per noi Zaccheo resta un modello. La ricerca di Dio può affievolirsi, nell’illusione di averlo trovato, di conoscerlo già, Lui sempre nuovo, imprevedibile, inafferrabile. L’assuefazione alla sua presenza (vuol dire che non siamo più presenti a Lui. Come
ci si potrebbe assuefare se vivessimo davvero di Lui?) può smorzare la gioia, lasciarci illanguidire, insabbiare il cambiamento di vita e renderci statici, inoperosi.

Ma la nostra simpatia va soprattutto a Gesù, che sa suscitare l’insoddisfazione e il desiderio della ricerca. A lui che per primo si muove per trovare ciò che è perduto. A lui che ha alzato lo sguardo e ha rinvenuto la pecorella smarrita e non l’ha rimproverata; che ha accolto il figlio prodigo senza rinfacciargli il male fatto e senza chiedergli di restituire il maltolto. A lui che hai onorato il peccatore con la tua visita.
Forse non sappiamo suscitare la salvezza attorno a noi perché all’altro abbiamo sempre tante cose da dare, da dire: siamo ricchi.
Gesù invece ha chiesto a Zaccheo, facendosi bisognoso d’accoglienza: era povero. Così l’ha messo nell’occasione di donare e il cuore è scoppiato di generosità e di gioia.


venerdì 28 ottobre 2016

Siamo in Italia!


Passo davanti all’ambasciata di un grande stato. Una macchina di grossa cilindrata, con targa diplomatica, è parcheggiata in mezzo alla corsia. Accanto, sulla destra, c’è il posto per il parcheggio libero, riservato apposta per l'amnasciata, ma forse l’autista non ce n’è accorto, o forse è più comodo o fa più ostentazione lasciare la macchina in mezzo alla strada. Le auto che transitano in quella direzione devono attraversare la doppia linea ed invadere la corsia opposta.
Il luogo pullula di carabinieri e agenti dei più vari corpi. Mi avvicino a un gruppo di loro e chiedo: “Ma una macchina può parcheggiare in quel modo in mezzo alla strada?”. “Non vede che ha una targa diplomatica? Loro posso fare quello che vogliono”. “No, non possono fare quello che cogliono”. Mi pare che neanche il Padreterno possa fare quello che vuole, il male non può farlo (semplicemente perché non lo vuole!), quindi neanche lui può parcheggiare nel mezzo di strada. Poi i militari aggiungono: “Non si può neanche multarli”. “Non è vero, ribatto, si possono multare, anche se la riscossione della multa deve passare attraverso il Ministero degli esteri”.

A questo punto uno di loro allarga le braccia, lasciando la mitraglietta che gli pende dalla spalla, e pronuncia una delle frasi più emblematiche, ad effetto, esplicativa di ogni problema: “Siamo in Italia!”, e tutto intorno i commilitoni in coro: “Siamo in Italia”. Non mi rimane che sorridere con loro, che altro fare davanti all’evidenza?

Proseguo e, in una lucente ottobrata romana, mi ritrovo in piazza san Bernardo, tra la chiesa di santa Susanna, la rotonda di san Bernardo, la fontana dell’Acqua Felice. Che spettacolo! E gratis!
Entro nella Chiesa della Madonna delle Vittorie, anch’essa prospiciente la piazza, ed ecco uno dei capolavori del Bernini, l’estasi di santa Teresa. Che spettacolo! E gratis!
Sì, siamo in Italia!!!


giovedì 27 ottobre 2016

Comunione tra vivi e morti, con o senza cremazione


Urna cineraria di un Oblato, deposta nella
chiesetta della foto accanto, tra i boschi
di Notre-Dame de Lumières
Valeria mi viene incontro con la faccia sconvolta: “Cosa abbiamo combinato! Due anni fa, quando è morta la mamma, l’abbiamo fatta cremare. È contro la dottrina della Chiesa. Mio fratello mi ha appena telefonato, anche lui agitatissimo…”. Raccolgo altre reazioni contraddittorie dopo la pubblicazione dell’Istruzione Ad resurgendum cum Christo emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede, circa la sepoltura dei defunti e la conservazione delle ceneri in caso di cremazione. Cremazione sì, cremazione no; conservare le ceneri o disperderle?
Il documento, breve e chiaro, conferma quando già stabilito dal Codice di Diritto canonico e dal Catechismo della Chiesa Cattolica: “La Chiesa permette la cremazione, se tale scelta non mette in questione la fede nella risurrezione dei corpi” (n. 2301).
Quello che conta, prima di tutto e soprattutto, è questa fede, che professiamo ogni domenica nel Credo: «Credo la resurrezione della carne»; risorgeremo, perché Gesù è risorto. I cristiani hanno una visione tutta positiva della morte, come la Chiesa insegna a pregare: «Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo».
Dopo la fede, la prassi, spesso segnata dalla cultura. Il documento riafferma in proposito l’antichissima tradizione cristiana, secondo la quale i corpi dei defunti vengono seppelliti nel cimitero o in altro luogo sacro come segno più idoneo per esprimere la fede e la speranza nella risurrezione corporale, la pietà e il rispetto dovuti ai morti.
Motiva questa scelta secolare come maggiormente atta a favorire «il ricordo e la preghiera per i defunti da parte dei familiari e di tutta la comunità cristiana, nonché la venerazione dei martiri e dei santi», opponendosi «alla tendenza a occultare o privatizzare l’evento della morte e il significato che esso ha per i cristiani».
Una volta assicurata la dichiarazione di fede e aver ricordato la tradizione, il documento lascia liberi di scegliere la cremazione. Ad una condizione – ed è questo il punto centrale della “Istruzione”; che l’incenerimento non sia espressione di una visione non cristiana della morte. Ecco in concreto le concezioni errate della morte che vengono contestate: che essa sia considerata come «l’annullamento definitivo della persona, come il momento della sua fusione con la Madre natura o con l’universo, come una tappa nel processo della re–incarnazione, come la liberazione definitiva della “prigione” del corpo». Ciò che non è cristiano non è la cremazione in sé, ma queste errate visioni della vita e della morte, che possono stare dietro tale scelta.
Ultimo argomento della “Istruzione” riguarda l’uso delle ceneri. «Per evitare ogni tipo di equivoco panteista, naturalista o nichilista – si legge –, non sia permessa la dispersione delle ceneri nell’aria, in terra o in acqua o in altro modo oppure la conversione delle ceneri cremate in ricordi commemorativi, in pezzi di gioielleria o in altri oggetti». Anche in questo caso non è tanto il fatto in sé a creare problema, quando la mentalità che tale gesto può esprimere, il panteismo, appunto, il naturalismo, il nichilismo.
Un documento asciutto, quello della Congregazione per la Dottrina delle fede, che può aiutare a riflettere sul senso della vita e della morte e sul rapporto di comunione che tiene uniti vivi e morti.


mercoledì 26 ottobre 2016

Un canto d'amore


Quello che noi chiamiamo col nome di rosa, anche chiamato con un nome diverso, conserverebbe ugualmente il suo dolce profumo. Allo stesso modo Romeo, se portasse un altro nome, avrebbe sempre quella rara perfezione che possiede anche senza quel nome.
E come sei giunto fino a qui? Dai, dimmi come e perché. Le mura del cortile sono irte e difficili da scalare, e questo luogo, considerando chi sei tu, potrebbe significare la morte se qualcuno della mia famiglia ti scoprisse.
Sono indelebili queste parole di Giulietta nella scena del balcone.
Altrettanto indelebili le parole di Romeo:
Ho scavalcato le mura sulle ali dell’amore, poiché non esiste ostacolo fatto di pietra che possa arrestare il passo dell’amore, e tutto ciò che amore può fare, trova subito il coraggio di tentarlo.
Giulietta: E chi ha saputo guidarti fino a qui?
Romeo: È stato amore, che per primo ha mosso i miei passi, prestandomi il suo consiglio, ed io gli ho prestato gli occhi. Non sono un buon pilota: ciò nonostante, anche se fossi tanto lontana quanto la riva abbandonata dove lavano marosi del più remoto dei mari, non esiterei a mettermi in viaggio, per un carico così prezioso.

La stagione del Globe Theatre di Villa Borghese, interamente in legno, a cielo aperto, che riproduce il celebre teatro vittoriano di Londra, è ormai conclusa. In settembre ho fatto a tempo a vedere una delle ultime rappresentazioni di Giulietta e Romeo, un capolavoro immortale, inno all’amore e all’amicizia. 
L’arte è una delle più belle espressioni dell’anima umana.


martedì 25 ottobre 2016

La sinodalità inaugura l’anno accademico al Claretianum

  
 L’inaugurazione dell’anno accademico del Claretianum è sempre un momento di festa, ritrovarsi insieme, valutare l’anno passato, proiettarsi verso nuovi traguardi, ascoltare buona musica (quest’anno la canzone napoletana)! E poi il saluto sempre caloroso del Rettore dell’Università e, non ultimo, la prolusione, questa volta affidata al cardinale João  Braz  De  Aviz. Mi è piaciuto soprattutto quanto ha detto sulla sinodalità della Chiesa, e sui molti risvolti che ha anche per il nostro mondo accademico e della vita consacrata. Solo due parole dal suo discorso:


“Sinodo è il nome della Chiesa”, una formula che riprende un detto di Giovanni Crisostomo, richiamato da Papa Francesco nel suo discorso del 17 ottobre 2015, nel cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi: “Chiesa e sinodo sono sinonimi” perché la Chiesa non è altro che “il camminare insieme” del Popolo di Dio sui sentieri della storia incontro a Gesù risorto che viene.

La parola “sinodo” esprime il cammino (hodós) insieme (sýn) del Popolo di Dio in una stessa direzione, nella sequela di Gesù, sotto la guida dello Spirito Santo, per testimoniare e annunciare il Vangelo. E benché il termine e il concetto non si ritrovino nel Vaticano II, si può dire che l’istanza della sinodalità è al cuore dell’opera di rinnovamento promossa dall’ultimo Concilio.

Il “camminare insieme” (sinodalità) è più ampio e articolato di quello della “collegialità”. Quest’ultimo (la collegialità) infatti, si riferisce a un esercizio di governo nella Chiesa (il collegio  episcopale in comunione con il Papa, il vescovo di Roma). La sinodalità, invece è il camminare insieme dell’intero Popolo di Dio che in sé comprende e attiva l’esercizio articolato dei diversi carismi e ministeri, esercitati secondo lo spirito e il metodo della comunione e del reciproco servizio alla missione.
La preferenza della Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, del Concilio, per la categoria Popolo di Dio (cf. n.12) esplicita l’uguale dignità dei membri della Chiesa in virtù del battesimo: tutti figli e figlie di Dio e, per questo, in Gesù, fratelli e sorelle.
Tra le altre conseguenze rilevanti viene in evidenza l’essenziale natura di “communio” che caratterizza l’evento ecclesiale, e manifesta la corresponsabilità di tutti i cristiani, membri del Popolo di Dio.


lunedì 24 ottobre 2016

Gli anni giovanili di Eugenio de Mazenod




È finalmente in edicola il libro sugli anni giovanili di Eugenio de Mazenod. L’Editrice lo presenta così:

Fedele come un saggio storico, avvincente come un romanzo.
La vita appassionante e ricca di “colpi di scena” di Eugenio de Mazenod (1782-1861), fondatore degli Oblati di Maria Immacolata. Nel Sud di una Francia sconvolta dall’ascesa di Napoleone, la prigionia di Pio VII e la crisi della Chiesa cattolica vive un percorso esistenziale travagliato: il divorzio dei genitori, il sogno di una carriera brillante, di una moglie bella e ricca, e le delusioni, la noia e la costante insoddisfazione. Fino all’inaspettato incontro con Cristo che, a 27 anni, ne sconvolge la vita e la spalanca su orizzonti nuovi e appaganti. Come in un film, Fabio Ciardi ripercorre quindici anni, i più critici, della sua vita.

Intanto una lettrice mi scrive:
Leggendo il tuo romanzo noto la tua dote di romanziere. Questo libro è davvero diverso dagli altri, ti riconosco come sempre tra le righe ma un po' meno del solito, sei te e non sei te.


domenica 23 ottobre 2016

San Silvestro al Quirinale, dimora romana di sant’Eugenio

Mai visto la “Madonna della catena”? È una stupenda tavola del 1200 riproducente la Virgo lactans (la bizantina Galaktotrophousa), la Madonna che allatta Gesù Bambino. Ha preso questo nome perché si racconta che tra il 1646 e il 1650 un giovane uscito di senno, tenuto in ceppi per due anni, fu miracolosamente guarito dalla sacra immagine, presso la quale lasciò come ex voto la catena che lo aveva avvinto. Vale la pena entrare nella chiesa di san Silvestro al Quirinale anche solo per contemplare questo capolavoro.
La chiesa rimane fuori del giro turistico e apparentemente è inaccessibile. Si trova sulla strada che da Piazza Venezia porta al Quirinale. Una chiesa piuttosto bizzarra, con una bella facciata… ma puramente ornamentale, senza porta d’entrata. La cosa è dovuta al fatto che nel 1877, quando il Quirinale, che fino alla conquista di Roma da parte dei Piemontesi era stato la sede del papa, divenne la reggia del re d’Italia, la strada che passava davanti alla chiesa fu allargata e abbassata, tagliando la parte frontale: la facciata e le prime due cappelle laterali. La chiesa è rimasta così “per aria”, nove metri più in alto rispetto al livello stradale. Per entrare occorre suonare alla casa dei Padri della Missione, salire le scale, entrare nel loro appartamento, e da lì in chiesa.
Fu il punto di approdo di sant’Eugenio quando venne a Roma la prima volta, nel 1825, per chiedere al papa l’approvazione della sua Regola. Aveva scelto di abitare con i Padri della Missione per essere più vicino alla casa del papa, il Quirinale, appunto, in maniera da sbrigare più facilmente le sue pratiche. «Alloggio a S. Silvestro, presso il palazzo del Quirinale – scrive appena arrivato il 26 novembre 1925, appena arrivato a Roma –. È il noviziato e lo studentato dei missionari di S. Vincenzo de' Paoli». Era contento di avere insieme «l'altare e la mensa», e anche di trovarsi proprio in mezzo ai figli di quel san Vincenzo de’ Paolo, che amava in un modo tutto particolare: era uno dei santi che lo avevano ispirato nella fondazione dei Missionari di Provenza.
Nella prima lettera scritta al futuro primo compagno, p. Tempier, era già nominato come un santo da imitare: «Vivremo assieme in una casa da me comprata sotto una Regola che adotteremo di comune intesa, ispirandoci agli statuti di S. Ignazio, di S. Carlo, di S. Filippo Neri, di S. Vincenzo de’ Paoli e del b. Alfonso dei Liguori» (9 ottobre 1815). Due anni più tardi, scrivendo alla comunità da Parigi, dopo la data, 19 luglio 1817, aggiunge: «Festa del nostro santo patrono S. Vincenzo de’ Paoli» (fino al 1969 la celebrazione liturgica era in quel giorno). In seminario aveva scelto un santo al giorno, durante la settimana, da invocare come patrono: a san Vincenzo era dedicato il martedì. Finalmente ad Amiens incontrò per la prima volta i Padri della Missione: avevano la direzione del seminario nel quale fu accolto per la preparazione all’ordinazione sacerdotale. Fu lì che venne attratto dallo stemma e dal motto dei Vincenziani, che poi avrebbe fatto proprio, trasmettendolo ai Missionari di Provenza.


Si trovò bene in questa casa e in questa chiesa di Roma, al punto che vi ritornò altre tre volte, nei successivi viaggi. Era edificato dai novizi che vivevano in quell’ambiente: «Vedo qui noviziati che mi fanno invidia». Anche gli studenti di filosofia gli fecero bella impressione: «Devo dire che questi giovanotti sono meravigliosi e mi procurano grande edificazione; prego il Signore che ci dia il conforto di averne di simili» (6 dicembre 1825).
Si trovava bene anche perché dalla sua stanza aveva una meravigliosa vista su tutta Roma: «Sono contento del bello spettacolo che scopro dalla mia finestra da dove spazio su tutta la città vedendo davanti a me, sotto il giardino della casa dove abito, i giardini di Palazzo Colonna; di fronte, a poca distanza, le cupole del Gesù e di altre chiese; un po’ più lontano S. Andrea della Valle; a sinistra la Colonna Traiana, a poca distanza da lì il Campidoglio, a destra S. Ignazio, il Collegio Romano e l’osservatorio; più lontano la Colonna Antonina, Montecitorio, piazza del popolo e tanti altri notevoli edifici; al di sopra di tutto questo bel Vaticano e questa incomparabile cupola di S. Pietro: tutta la città insomma» (Diario, 13 dicembre 1825).
Non proprio tutto era perfetto in questa casa, per esempio la cucina. «Nonostante ogni sforzo – scriveva all’amico p. Tempier –, non posso mandar giù l'olio pessimo in uso a Roma. Durante le Quattro Tempora si osserva lo stretto magro con proibizione di uova e latticini, ed io ho ringraziato il Signore di non essermi avvicinato a quell'olio orrendo, contentandomi a pranzo di un pezzo di pesce bollito su cui ho spremuto mezzo limone» (18 dicembre 1825). La cosa non cambiò con il passare dei mesi. Il 16 marzo 1826 torna sull’argomento: «Terminata la quaresima riprenderò le forze, perché vi confesso che in vita mia non ho fatto una quaresima come questa. Mi capita spesso di passare una giornata con in corpo due uova cotte male, e per giunta è vietato mangiarne più di tre volte alla settimana. Provo una ripugnanza invincibile a inghiottire l'olio pestifero usato in casa: quando mi passano il pesce lo butto giù senza condimento, ma qualche volta non scende; anziché inghiottire vomiterei i tre pezzetti di un'altra specie di pesce che hanno macerato nell'aceto insieme a erbe aromatiche, qualcosa che rivolta lo stomaco. Di frequente la minestra è disgustosa al massimo: è un miscuglio di formaggio pane ed erbe; la caccio in gola per forza, poi mi rifaccio con la frutta, mangio pane e noci, mandorle e di solito due pere che non rifiuto mai».
In compenso la conversazione con i religiosi della casa lo edificava: «Ho fatto la ricreazione con p. Collucci, uno dei nostri Lazzaristi, di 74 anni. Gliene avrei dato sessanta. Non posso esprimere quanto sia stato edificato dalla sua bella semplicità, dalla bellezza della sua anima e dai sentimenti che esprimeva con ammirevole dolcezza. (…) Mi diceva che (…) tutti i giorni ringraziava Dio della sua vocazione. Avevo già notato la carità con cui, tutti i giorni, era pronto ad andare al confessionale e i suoi modi rispettosi verso tutti. Credo che questo prete sia un grande servitore di Dio. Mi diceva anche che ciò che più contribuiva alla sua felicità era ricevere tutto dalle mani di Dio» (6 dicembre 1825).

Si trovò subito a casa anche perché, con sua sorpresa, scoprì che nella chiesa si conservava la tomba del suo maestro Bartolo Zinelli, al tempo dell’esilio a Venezia. Così scrive a Courtès il 6 dicembre 1825: «Non vi ho pure ritrovato il ricordo, il busto e il corpo stesso sepolto in chiesa di quel santo sacerdote, di cui hai sentito parlare così spesso, il grande servo di Dio Bartolomeo Zinelli che fu mio maestro a Venezia ed è morto in odore di santità sotto questo tetto? La sua causa di beatificazione sarebbe già iniziata da gran tempo se la Società di cui era membro non fosse stata disciolta (…).Lui non aveva che virtù, e il Vescovo del luogo dove diede l'ultima missione volle che si stilasse l'atto autentico di una profezia fatta nella sua diocesi e verificatasi a puntino. (…) È per me una consolazione respirare la medesima aria, offrire il santo sacrificio sugli stessi altari, pregare sulla sua tomba». La tomba non c’è più, sparita con la demolizione di parte della chiesa in seguito all’ampiamento della strada.

Si sentiva a casa sua anche perché nella chiesa c’è una cappella nella quale è affrescata la sua Provenza. Attualmente è l’ultima a destra. Vi sono raffigurate la vita contemplativa e quella attiva, rappresentate rispettivamente da Maria Maddalena e Caterina da Siena.
Secondo la tradizione Maria Maddalena, assieme al fratello Lazzaro e alla sorella Marta, dopo aver lasciato la loro terra per sfuggire alla persecuzione, trovarono rifugio nella Provenza. A San Massimino, vicino ad Aix, sulla grotta dove Maria Maddalena era rimasta in penitenza per trent’anni, nel XIII secolo fu innalzata, su precedenti luoghi di culto, una grande basilica, oggetto di pellegrinaggi continuati fino alla Rivoluzione francese, quando il culto venne meno. Sant’Eugenio si adoperò molto perché esso tornasse in auge. L’affresco mostra Maria Maddalena immersa in un meraviglioso scenario provenzale.
Santa Caterina da Siena è raffigura ad Avignone, nella città dei papi vicini ad Aix, mentre dialogo con il papa per riportarlo a Roma: ancora una volta l’affresco descrive luoghi cari ad Eugenio.

San Silvestro al Quirinale: la casa e la chiesa romana di sant’Eugenio. Se sommiamo tutti i suoi soggiorni, vi ha dimorato per più di un anno. Vale la pena salire alla chiesa: buona visita, in compagnia di sant’Eugenio.


sabato 22 ottobre 2016

Abbi pietà di me peccatore


«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano…»

Si potrebbe parafrasare così un antico proverbio: «Dimmi come preghi e ti dirò chi sei».
La preghiera del fariseo mostra una persona buona, che osserva la legge alla perfezione, anzi più di quanto essa prescriva: è richiesto un digiuno la settimana e lui ne fa due. Bravo! Anch’egli è cosciente di essere bravo, al punto che non ha bisogno di chiedere niente. Non ha bisogno di Dio per andare in paradiso, ci va da sé, con le sue gambe. Semmai è Dio ad essere in debito verso di lui: il paradiso gli è dovuto perché è buono.
Sfasato il rapporto con Dio, si sfasa anche quello con gli altri e nasce il confronto, la critica, il giudizio, la condanna.
È una caricatura quella che Gesù ha disegnato con la parabola. Non esistono persone così. O forse ha voluto smascherare certi atteggiamenti che covano anche nel mio cuore?
Sono proprio sicuro che anche in me non faccia capolino qualche autocompiacimento, un senso di superiorità nei confronti di qualcuno?

Vorrei tanto identificarmi con il pubblicano. Il fariseo è sincero quando dice di essere ligio alla legge ed è sincero l’odiato esattore delle tasse quando dice che ha infranto la legge. Ha frodato? Ha praticato l’usura? Ha tradito il suo popolo vendendosi al nemico? Comunque sia, si riconosce per quello che è: un peccatore.
È quello che sono anch’io. Ma mi riconosco davvero sempre come tale, con la sua stessa sincerità? E quando lo riconosco mi abbandono nelle mani di Dio con la sua stessa fiducia? Spero tutto e solo da Lui?
Se sono un peccatore ho bisogno di Dio, come il pubblicano. Da me non posso salvarmi.
Gesù è venuto per i peccatori, non per i giusti. Quindi è venuto per il pubblicano, non per il fariseo. Con quest’ultimo non ha niente da fare, il suo atteggiamento ha reso inutile ogni intervento di Gesù. Con il primo invece ha da dare la vita e può compiere la sua missione.
È venuto per il pubblicano, è venuto per me. 
Abbassa chi si è innalzato e innalza chi si è abbassato, come aveva predetto Maria: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore... ha innalzato gli umili» (Lc 1, 51-52).


venerdì 21 ottobre 2016

Giovanni Paolo II agli Oblati



22 ottobre, festa di san Giovanni Paolo II, un papa che ha amato e più volte incontrato gli Oblati. Molte le parole e i messaggi rivolti ad essi. Un piccolissimo saggio:

5 dicembre 1980: Voi siete missionari del Signore e oblati della Madonna; nel nome di Cristo Gesù e della santissima Vergine vi dedicate all’opera di evangelizzazione tra quanti ancora non conoscono Cristo, come pure a far radicare sempre più tra varie popolazioni l’adesione aperta e generosa al Vangelo. Ciò comporta l’impegno di essere sempre più e sempre meglio anime sacerdotali e religiose in una vita dedita al generoso esercizio della giustizia, dell’amore e della pace tra gli uomini, privilegiando gli umili, i poveri, i sofferenti.
Tutto questo suppone intensa preghiera e profonda vita interiore per cui è possibile continuare, pur nelle occupazioni dell’apostolato, il colloquio col Padre celeste.

2 ottobre 1986: Da centosessanta anni, gli Oblati di Maria Immacolata hanno scritto, per la loro parte, un capitolo meraviglioso della storia missionaria della Chiesa contemporanea, dal Grande Nord all’equatore. Figli di Eugenio de Mazenod il cui zelo per l’annuncio del Vangelo è stato paragonato al vento maestrale, eredi di una stirpe quasi due volte secolare di Oblati appassionati di Gesù Cristo, lasciatevi, più che mai, attirare dalle folle immense e povere delle regioni del terzo mondo, come da questo quarto mondo occidentale che ristagna nella miseria e spesso nell’ignoranza di Dio.


3 dicembre 1995: Per sant’Eugenio de Mazenod annunciare Cristo significò diventare in pieno l’uomo apostolico di cui ogni epoca ha bisogno, dotato di quel fervore e di quello zelo missionario che a poco a poco lo configurano al Cristo risorto.

24 settembre 1998: Come sapete, l’annuncio del Vangelo presuppone che si attingano forza, coraggio e speranza nella vita di preghiera, soprattutto nell’orazione. La disciplina quotidiana, l’oblazione di sé a Dio e la vita comunitaria sono testimonianze autentiche di una carità intensa e la forma principale di annuncio del Vangelo. Sono un modo di imitare Cristo, consentendo di dire: “Venite e vedrete” (Gv 1, 39), e di aprire il cuore degli uomini affinché accolgano la parola di Dio con benevolenza.
In effetti, per l’amore che nutriranno gli uni per gli altri i fedeli del Signore saranno riconosciuti dai loro contemporanei e mostreranno il volto del Risorto (cfr 1 Gv 4, 11). Nel mondo attuale, più che mai, il sacerdote e il religioso devono vivere in intimità con il loro maestro, sforzarsi di diventare santi come esige la vostra regola, per essere disponibili alle intuizioni dello Spirito Santo e per rispondere meglio agli appelli del mondo.

27 settembre 2004: Rinnovata unione fraternascelte chiare in base alle priorità della vostra missione.


giovedì 20 ottobre 2016

Uno sguardo su Roma



In quest’ultimo periodo ogni domenica ho accompagnato un gruppo di Oblati a visitare Roma sulle orme di sant’Eugenio. Sono stati “pellegrinaggi” che hanno comunicato a tutti una gioia profonda. Roma è sempre Roma, ma vista con gli occhi di sant’Eugenio ha un altro fascino ancora.
Roma, «è come un compendio del cristianesimo – scrive il 6 dicembre 1825. Qui tutto è santo per chi ci viene da autentico pellegrino cristiano; io ci vedo solo gli apostoli, i martiri, i santi confessori di tutti i tempi: non esiste angolo di Roma che non sia un monumento di fede e di devozione… Qui si ritrovano tutti i santi, da S. Pietro fino al beato Benedetto Labre e ad altri più moderni». Era la prima volta che visitava la città eterna. Ne rimase subito conquistato. Vi tornò altre cinque volte e sempre andò alla ricerca delle tombe dei santi e dei luoghi del loro passaggio.

Era impressionato dalla bellezza delle chiese: ha lasciato delle note su una quarantina di quelle visitate. Il suo soggiorno a Roma si trasformò in un continuo pellegrinaggio.
Nel diario e nelle lettere descrive nei minimi particolari anche gli antichi monumenti che ama visitare: il Colosseo e il Foro romano, il Panteon, il Corso, Castel Sant’Angelo, la Cappella Sistina, i Musei Vaticani, la Cupola di san Pietro, le Catacombe… Di ogni chiesa, di ogni monumento scrive la storia, e annota i sentimenti che gli nascono in cuore.
Dall’Aventino, forse dal Giardino degli aranci, ammira la città: «La vista è deliziosa – annota nel diario l’8 febbraio 1826 – si vede Roma di fronte e di lato, da un’altezza che fa scoprire punti di vista molto pittoreschi. Il Tevere scorre in basso alla collina e conduce dirimpetto i bastimenti che risalgono questo fiume per venire a caricare e merci a Ripa Grande».
Si trovava bene anche perché dalla sua stanza aveva una meravigliosa vista su tutta Roma: «Sono contento del bello spettacolo che scopro dalla mia finestra da dove spazio su tutta la città vedendo davanti a me, sotto il giardino della casa dove abito, i giardini di Palazzo Colonna; di fronte, a poca distanza, le cupole del Gesù e di altre chiese; un po’ più lontano S. Andrea della Valle; a sinistra la Colonna Traiana, a poca distanza da lì il Campidoglio, a destra S. Ignazio, il Collegio Romano e l’osservatorio; più lontano la Colonna Antonina, Montecitorio, piazza del popolo e tanti altri notevoli edifici; al di sopra di tutto questo bel Vaticano e questa incomparabile cupola di S. Pietro: tutta la città insomma» (Diario, 13 dicembre 1825).

Si interessa soprattutto dei santi visitando i luoghi dove essi hanno vissuto e le loro reliquie: Caterina da Siena, Filippo Neri, Francesca Romana, Francesco Borgia, Giovanni Berchmans, Giuseppe Calasanzio, Giovanni Leonardi, Giuseppe Benedetto Labre, Ignazio di Loyola, Leonardo da Porto Maurizio, Luigi Gonzaga, Paolo della Croce, Stanislao Kostka… Durante le sue visite, a Roma c’erano anche santi viventi come Vincenzo Pallotti, Gaspare del Bufalo, Anna Maria Taigi, Elisabetta Canori Mora...
I santi diventano la sua passione. Ne legge le biografie, ne parla con i religiosi dei rispettivi Ordini. Va a studiare la vita e le opere di sant’Alfonso de Liguori nella casa dei Redentoristi in via Monterone. Dalle note dei conti economici che redige con precisione ogni mese, appare che la spesa maggiore, oltre a quella per la pensione, è riservata all’acquisto di libri di storia, teologia, e vite dei santi.
Il 3 dicembre 1825 scrive a Tempier: «Ieri ho letto d'un fiato la vita di S. Giuseppe Calasanzio: c’è di che confortarsi quando incontriamo sofferenze simili a quelle cui siamo troppo spesso esposti. (…) Se i santi sono stati trattati in tal modo, c'è da meravigliarsi che noi siamo provati a nostra volta?».

Partecipa alle liturgie e alle devozioni che si praticano nelle varie chiese, annotandone i particolari. Celebra il Giubileo del 1825, vive la Settimana santa del 1926 in Vaticano, assiste alle beatificazioni, celebra all’altare della confessione in san Pietro.
È colpito soprattutto dalla pietà dei romani, come scrive il 18 dicembre 1825 dopo aver partecipato alla venerazione delle reliquie della Passione in san Pietro: «Fui estasiato dal silenzio profondo che regnò in tutta questa immensa basilica durante la cerimonia. Tutti erano in ginocchio e pregavano con molta pietà. Tutti erano in ginocchio e pregavano con molta pietà. La folla era immensa. A questo proposito devo fare un’osservazione su quanto ho visto da quando sono a Roma percorrendo continuamente le chiese: è che sempre e dappertutto ho visto regnare un grandissimo decoro, e che la pietà dei pellegrini, tutta gente del popolo, poveri contadini, la maggior parte laceri, mi edifica sempre di più».

Roma è poi la città del papa. Vi ha incontrato Leone XII, Gregorio XVI, Pio IX, con ognuno dei quali ha avuto un rapporto molto profondo.

Inoltre Roma... perché non la visitiamo insieme?



mercoledì 19 ottobre 2016

L’attesa nella fede di apa Pafunzio


“Quando il Figlio dell’uomo tornerà troverà la fede sulla terra?”
Era rimasto colpito da queste parole di Gesù. Gli parvero un grido d’angoscia, non una sfida; un appello accorato. Ne era quasi atterrito. Paolo alla fine della vita poteva dire di avere conservato la fede, ma lui, Pafnunzio, avrebbe custodito il tesoro fino all’ultimo? Avrebbe avuto la fede quando, d’improvviso, si sarebbe visto davanti il Figlio dell’uomo?
L’avrebbe riconosciuto al suo arrivo? Gli sarebbe occorsa proprio la fede, intelligenza del cuore, sguardo puro che sa vedere ciò che veramente è… Lasciarsi penetrare dal Mistero, dalla Verità, da Dio stesso. Accoglierlo e lasciarlo vivere in sé, vivere di lui. Non era questa la fede?
Allo stesso tempo era incantato nell’ascoltare quelle parole, pensava al desiderio di tornare che il Figlio dell’uomo manifestava; voleva tornare proprio sulla terra, nella fisicità dei luoghi che gli erano noti, sui quali aveva camminato. Aveva dunque nostalgia della sua terra, di me? Pensò apa Pafnunzio.
 “Quando tornerai – prese a dirgli con la sua preghiera semplice – vorrei che mi trovassi a pensare a te, a viverti, a parlarti. Vorrei… e già ci sei, presenza nuova, piena.
“Quando verrai, Gesù? Ora? In questo momento? In ogni momento?
“Vieni, Signore Gesù. Vieni.
“Ti aspetto… nella fede”.


martedì 18 ottobre 2016

La vita di sant’Eugenio mi ha conquistato



È uscito il terzo volume “Un anno con sant’Eugenio e i suoi Oblati”, che accompagna gli ultimi quattro mesi (ottobre-gennaio) del bicentenario della fondazione dei Missionari OMI.
Mi giunge intanto la lettera di un anziano Oblato che scrive:

Carissimo Padre Fabio, ho iniziato la lettura del tuo libro “Un anno con sant’Eugenio e i suoi Oblati”, con una certa insoddisfazione e pessimismo.
Non ho potuto non leggerlo fino alle ultime parole. Una vita tutta al servizio della Chiesa che mi ha edificato. Quante volte guardandomi dentro non ho potuto non chiedermi: “Signore, che cosa è un uomo, che cosa sono io uomo, perché te ne curi, perché tu mi abbia voluto nella famiglia degli Oblati di Maria?”. 
La vita di sant’Eugenio mi ha conquistato.
Ti ringrazio perché questa lettura mi ha fatto veramente bene. Un esempio che trascina ad operare la nostra santificazione per la salvezza eterna di tutti.
L’anno scorso sono stato tanto male. Sant’Eugenio non mi ha abbandonato. Non dimentica i suoi figli Oblati di Maria Immacolata.

Grazie per questo tuo libretto.

lunedì 17 ottobre 2016

Sophia e la Scuola Abbà


«Era il novembre 1973. Durante una lezione in cui si trattava delle equazioni di Maxwell e della teoria del campo elettro-magnetico, a un certo punto la mia mente si è staccata dalla lezione e, tutto a un tratto, dentro di me ho avvertito, senza ascoltarla con i sensi fisici, la domanda: “Paul, chi sei?”. Sperimentai in un lampo che l’infinito che cercavo nell’universo della relatività e l’infinitesimo delle particelle che tentavo di capire e raggiungere attraverso le equazioni della meccanica quantistica, proprio quell’infinito, era prima di tutto dentro di me. In un “flash”, come un fulmine, ho sperimentato che tutto l’universo, le stelle, le galassie, gli atomi e io eravamo uno».
Così Paul O’Hara, ordinario di ontologia e razionalità scientifica e direttore della cattedra Piero Pasolini, ha iniziato la prolusione con cui si è inaugurato l’anno accademico dell’Istituto Universitario Sophia.
Una mattinata di gioia e di luce, con gli studenti che cantano l’inno, i saluti, la relazione del Preside… Al nono anno di vita il giovane istituto universitario appare già maturo e si apre a sempre nuove iniziative, in una crescita costate e creativa.


È la prima volta che partecipo a questo atto accademico. Lo faccio in rappresentanza dell’intera Scuola Abbà, di cui sono responsabile. Un atto dovuto, ma non per questo meno sentito e di sincera partecipazione.
Sophia, in un certo senso, è il frutto della Scuola Abbà. Il primo corpo professorale è uscito dalle sue file e anche adesso tre membri ne fanno parte.
Due entità distinte e autonome, con statuti propri e missioni differenti. Eppure unite dal medesimo ethos, chiamate a lavorare sempre più insieme per creare una cultura dell’unità.